Il Consiglio dei ministri ha deciso che il referendum costituzionale si svolgerà il 4 dicembre, la data suggerita dal premier Matteo Renzi. Inizia il conto alla rovescia con i comitati per il “Sì” e il per il “No” impegnati nella sfida di convincere gli indecisi. Come descrive Marcello Sorgi “sarà una campagna durissima, senza esclusione di colpi”.
Una campagna senza esclusione di colpi
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artita in grande anticipo ed entrata ieri con la fissazione della data nel suo lungo conto alla rovescia finale, la campagna referendaria per il «Sì» o il «No» alla riforma costituzionale sarà durissima, senza esclusione di colpi, come s’è già visto in queste prime settimane di dibattito pre-elettorale, ma anche dedicata a tutt’altro, che non alla riduzione del bicameralismo perfetto, al riequilibrio dei rapporti tra Stato e Regioni e alla cancellazione del Cnel, la cui demolizione è cominciata ma procede a ritmo lentissimo.
E non perché dal ’48 in poi, quando De Gasperi e Togliatti si affrontavano a colpi di calci con «scarpe chiodate» e «comunisti che mangiano i bambini», il tono e gli argomenti della propaganda in Italia siano sempre stati esagerati, e aggravati, negli ultimi tempi, da un uso massiccio della tv e della Rete.
Ma perché, essendo difficile dimostrare che un colpo di Stato e una svolta autoritaria si nascondano dietro una riforma come quella discussa e votata sei volte dalle Camere – ispirata, seppure approssimativamente e con un inevitabili compromessi e sbavature, a modelli in vigore nel resto d’Europa, Germania, Francia, Inghilterra -, gli avversari della stessa, raccolti trasversalmente dall’estrema sinistra all’estrema destra nel largo fronte del «No», cercheranno di convincere gli elettori che è meglio approfittare del voto per buttare giù, o almeno per acciaccare, Renzi, cioè il capo di un governo già indebolito da due anni e mezzo di potere, ma che ai loro occhi manifesta visibilmente tentazioni antidemocratiche.
Che al centro della riforma ci sia l’effettivo rafforzamento dell’esecutivo rispetto al Parlamento e al decentramento regionale, non c’è dubbio. E nessuno dei sostenitori del cambiamento della Costituzione lo ha mai negato. Anzi, si può dire che questo è stato, stavolta come in tutte le fallite esperienze precedenti, il punto di partenza di una discussione che s’è sviluppata a cominciare dall’avvio inconcludente della legislatura, del flop di un Parlamento appena formato che non era stato in grado di eleggere un nuovo Capo dello Stato, e dell’inattesa e conseguente rielezione di Napolitano: che accettò, va ricordato anche se la vicenda è appena di tre anni fa, solo in cambio dell’impegno di deputati e senatori a realizzare una volta e per tutte le riforme. Di qui presero le mosse i governi Letta e Renzi, assumendo come primo punto dei loro programmi la promessa fatta solennemente all’anziano Presidente: il quale, una volta giunto l’iter parlamentare della riforma a un punto di sicurezza, poté finalmente ritirarsi, rassicurato dal fatto che il suo successore Mattarella, sulla stessa materia, si presentava come un continuatore.
È inutile nasconderlo: sarebbe un disastro il fallimento di un percorso, certo tortuoso e con molti cambiamenti di posizione in corso d’opera, eppure eccezionale, in quanto originato da uno stato di paralisi in cui il Parlamento, in settant’anni di storia repubblicana, non era mai precipitato. E da cui per fortuna ha saputo riprendersi, intanto trovando l’accordo per garantire la successione al Quirinale, poi appunto approvando le riforme, e in un modo o nell’altro assolvendo compiti, che nel nostro Paese, si sa, quasi mai sono di ordinaria amministrazione. Per queste ragioni, la vittoria del «No», perfettamente legittima e democratica, anche se paradossalmente voluta dai sostenitori della pretesa svolta antidemocratica che si avrebbe con l’affermazione del «Sì», non rappresenterebbe solo un ritorno al punto di partenza, come dicono tutti, da Grillo a D’Alema a Brunetta ai professori del «No», ma un enorme passo indietro. Non a caso, dai 5 stelle a Tremonti, si fa strada l’idea di un ritorno al proporzionale, cancellando anche la legge elettorale maggioritaria, per eleggere un nuovo «Parlamento costituente»: dalla Terza Repubblica, ancora da battezzare, direttamente alla Prima, senza chiedersi neppure se è possibile ricostruire sulle macerie di ciò che si è distrutto.
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vivicentro/Referendum: ‘sarà una campagna durissima, senza esclusione di colpi’
lastampa/Una campagna senza esclusione di colpi (Marcello Sorgi)
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