È
difficile calcolare con precisione a quanti miliardi ammonta, in tutto il mondo, la distruzione di ricchezza finanziaria provocata dalla caduta delle quotazioni di Borsa nei tredici giorni di attività dei mercati dall’inizio dell’anno fino a ieri, ma si tratta sicuramente di molte migliaia. Quali sono i motivi di questo crollo, largamente imprevisto?
All’inizio si è cercato di dar la colpa al rallentamento della crescita economica cinese, un alibi che non ha tenuto a lungo, vista l’esiguità di tale rallentamento. Poi la si è attribuita al crollo del prezzo del petrolio, una causa certamente importante, ma probabilmente non la principale, dei movimenti affannosi, bruschi e incontrollati di questi giorni.
La vera ragione sta «dentro» ai mercati borsistici, al loro modo di funzionare, alla loro crescente dissonanza dal sistema economico-sociale che li ha espressi. Il loro meccanismo permette miliardi di operazioni automatiche di compravendita al giorno, che scattano, grazie a un ordine dato da un computer, appositamente programmato, quando le quotazioni raggiungono un determinato prezzo. Tutto ciò va bene quando i mercati hanno di fronte un mondo relativamente stabile, una crescita economica razionalmente ipotizzabile e non invece quando situazioni impreviste (ivi compresi gli arrivi dei migranti, l’importanza assunta dal terrorismo islamico, le prospettive, improvvisamente incerte, della crescita economica mondiale) vengono a turbare i calcoli finanziari quando specifici dati negativi si sommano a generiche paure, quando l’orizzonte di chi governa le economie più importanti non riesce ad andare oltre l’emergenza.
Dopo questi crolli, come sgombrare le macerie? E soprattutto come impedire che la malattia della finanza globale infetti l’economia reale del pianeta come è successo nel 2008? La risposta immediata non sta nei mercati ma nelle autorità di vigilanza al di fuori dei mercati e gli strumenti da utilizzare sono i vari meccanismi limitativi delle transazioni di mercato, a cominciare dal divieto di vendita allo scoperto, già introdotto per qualche titolo e che forse dovrebbe essere esteso, finché dura la turbolenza, a varie categorie di transazioni finanziarie.
Occorre poi accertare l’entità dei danni occulti, ossia dei «buchi» che le perdite di questi giorni apriranno nei bilanci delle istituzioni finanziarie che detengono i titoli maggiormente penalizzati dalla caduta. In tutto il mondo si dovrebbe essere pronti non solo a turarli, come si fece nel 2008-9, ma anche a impedire – come allora non si ebbe il coraggio di fare – che queste situazioni si riproducano. È necessario porre qualche limite all’assoluta libertà delle transazioni finanziarie mondiali in favore di un sistema che non ripudi il mercato ma lo armonizzi, indirizzando le sue energie alla soluzione dei problemi dalle diseguaglianze, delle decrescenti opportunità dei cittadini medi di trovare occasioni adeguate di lavoro, di uno sviluppo potenzialmente disumanizzante.
L’Europa, in particolare, che ha dato negli ultimi mesi prove clamorose di incertezza e di miopia politica, deve assumersi il compito di tornare alle grandi visioni. E l’Italia, dove ieri si sono verificare le perdite più gravi, deve fare di tutto perché una finanza in tempesta non uccida un’economia che sta faticosamente uscendo dalla crisi.
Per una coincidenza non banale, mentre ieri la caduta raggiungeva il suo massimo, Papa Francesco inviava un duro messaggio al Forum Economico Mondiale di Davos – una sorta di vertice economico informale dell’economia dei Paesi ricchi – perché i poveri non vengano dimenticati e lo sviluppo venga umanizzato. In definitiva, il dilemma sta proprio qui, nel decidere se i mercati finanziari debbano essere un fine o un mezzo; sulla base della premessa che devono servire anziché essere serviti è sicuramente possibile trovare rimedi efficaci.
* mario.deaglio@libero.it / lastampa
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