Perdita e guadagno del diritto alla privacy: entro il 20 dicembre potrebbe essere approvata una normativa UE che frenerebbe il riconoscimento di attività illecite.
Perdita e guadagno del diritto alla privacy: sorveglianza e opposizione
I
giornali americani hanno recentemente portato alla ribalta un tema fondamentale: entro il 20 dicembre potrebbe essere approvata una nuova normativa UE per la privacy che frenerebbe il riconoscimento di alcune attività illecite. Prima tra tutte, la caccia agli abusi sessuali online sui minori.
In periodo di covid-19 sono stati molti i dibattiti su quale fosse il giusto utilizzo dei dati sensibili, con un focus specifico riguardante quelli sugli spostamenti. Ma un utilizzo giusto, appunto non c’è. L’idea di base è proprio che i dati andrebbero monitorati, ma non da esseri umani che potrebbero farne uso commerciale, probabilmente il meno pericoloso, ma che potrebbe tradursi in studi sulle tendenziali preferenze della popolazione utilizzabili a scopi politici e propagandistici.
Il sapere è tutto, e l’essere umano non è scevro da interessi.
Il web che tutti conosciamo si basa su pilastri di superficie. L’indirizzo IP è un codice numerico che identifica un determinato server. Ma per tradurre gli indirizzi testuali che tutti conoscono (es. www.google.it) esistono dei registri. Vere e proprie liste con testo e numeri associati: sono i routing.
Questo è vero per il web di superficie, ma non è vero per una fetta del web non accessibile, il cosiddetto deep web, il cui accesso è moderato attraverso particolari browser. Il tutto funziona tramite sottoreti che impediscono il tracciamento del messaggio. Quest’ultimo è avvolto in vari strati di meccanismi di routing: un sistema omertoso, in cui ogni passaggio non è tracciato e compie percorsi atti a nascondere la provenienza del lancio. I nodi sanno solo dove condurre il messaggio, senza conoscere da dove parta.
Questo per riferirsi a temi caldi quali il “diritto all’oblio”: la richiesta di cancellazione di determinati contenuti a pena ormai scontata, così da eliminare l’informazione stessa della pena ricevuta sulla base del tempo trascorso dalla stessa.
Questo diritto si pone in posizione diametralmente opposta all’onere dei cosiddetti sex offenders. In America, infatti, in seguito alla condanna per determinati crimini e al successivo (eventuale) rilascio, è obbligatoria l’iscrizione ad un registro che informi il vicinato in cui il criminale risiede che il soggetto ha commesso un crimine considerato psicologicamente difficile da eradicare dalla sua natura.
È una modalità discutibile, ma tant’è. Rende giusto il diritto all’oblio? Non sembra. Sottolinea il talvolta discutibile legame tra atteggiamento criminale e particolari condizioni psicologiche? Sì, giusto o ingiusto che sia.
Cancellare i contenuti da internet non è così semplice: la grande pedofilia e i grandi meccanismi occulti passano per sistemi invisibili. Di conseguenza, il grande problema della privacy si dimostra un fantoccio. Preoccuparsi che un contenuto sia su internet, al giorno d’oggi, lascia il tempo che trova.
Sarebbe, forse, più utile considerare di mettere da parte le preoccupazioni relative alla gestione della privacy. Almeno per ora, finché non sarà sviluppato uno strumento che possa controllare i contenuti sensibili in maniera totalmente automatizzata. L’utilizzo di frasi chiave per catalogare lo spam (che talvolta deve essere comunque segnalato manualmente dall’utente) segue lo stesso meccanismo di “ancoraggio” di pixel per il riconoscimento di contenuti pedopornografici riferiti ad una banca dati che già ne contiene. Ma non è abbastanza.
Molti degli abusi online avvengono in tempo reale. Il mancato tracciamento degli stessi da parte di aziende (come Facebook) che potrebbero dal 20 dicembre non essere più obbligate ad occuparsene, innescherebbe un pericoloso effetto a catena su altri Paesi del mondo che avrebbero ogni interesse nell’approfittare della situazione.
Di cosa preoccuparsi, allora, se non della protezione dei dati personali?
Un problema di cui varrebbe la pena discutere è quello dell’utilizzo (talvolta condizionante) dei dati a scopo informativo. Il nostro sistema giudiziario non impedisce il perseguimento di processi mediatici. In altre parole, spesso i processi avvengono al di fuori del tribunale, sul banco degli imputati installato dall’opinione pubblica. E questi meccanismi, talvolta, hanno il potere di modificare lo svolgimento e persino i risultati di un processo.
Un caso recente è quello dell’omicidio di Marco Vannini. L’aspirazione alla giustizia ha condotto alla condanna di tutta la famiglia Ciontoli per concorso in omicidio (tranne il capofamiglia, condannato per omicidio volontario con dolo eventuale). Tutti, tranne la fidanzata del figlio di Ciontoli, ugualmente presente sulla scena al momento dello sparo, ugualmente imputabile di non aver richiesto soccorsi per il giovane, che morirà per omissione di soccorso.
Il sistema giudiziario ha giudicato giusto un quadro di colpevolezza e di assoluzione declinato in questi termini. Ma non sapremo mai quanto il processo mediatico nei confronti di personaggi che portassero lo stesso cognome abbia potuto salvare dalla condanna l’unica che della famiglia non faceva parte.
Non dovremmo, quindi, concentrarci troppo sull’utilizzo dei dati personali inteso in assoluto. Perché, per quello, una soluzione ancora non c’è. Ma dell’uso informativo dei dati e della eventuale strumentalizzazione degli stessi. L’unico modo per farlo è lo sviluppo di un pensiero critico.
Se la tecnologia non può aiutarci, dovremmo farlo da soli.
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