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ottrina sulla sicurezza
Il dramma attraversato dai quattro tecnici di «Bonatti» evidenzia la dissoluzione della Libia, suggerisce l’entità dei pericoli che ne conseguono per l’Italia e impone la necessità di una nuova dottrina sulla sicurezza nazionale.
L’uccisione di Fausto Piano e Salvatore Failla, così come l’odissea di Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, nasce dalla decomposizione della Libia. Lo Stato post-coloniale, creato nel 1951 e dominato per oltre 40 anni da Muammar Gheddafi non esiste più. Non ha governo, Parlamento, forze di sicurezza né controllo sui confini. Nelle tre regioni che ne erano parte – Tripolitania, Cirenaica e Fezzan – a prevalere è la polverizzazione dell’autorità del territorio da parte di una miriade di milizie armate che si contendono centri urbani, poteri locali, basi militari, vie di comunicazione, risorse naturali e traffici illegali. Gli esecutivi rivali di Tripoli e Tobruk sono segnati da lacerazioni intestine, firmano accordi destinati a cadere e devono fare i conti, da Sabratha a Misurata, con una sorta di città-stato gestite in proprio da leader corrotti, più o meno sanguinari. Ciò spiega la difficoltà della diplomazia internazionale – a cominciare da Stati Uniti e Italia – nel tentare di favorire la creazione di un governo di unità nazionale.
E l’intenzione dell’inviato Onu Martin Kobler di dialogare con le tribù, unica forma di rappresentanza alternativa alle milizie fra le quali spicca lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi padrone di almeno 200 km di costa attorno a Sirte. A descrivere la precarietà dell’opzione diplomatica è lo scenario a cui si sta lavorando: l’insediamento a Tripoli di un governo di unità incompatibile con quello locale islamico, con la città divisa di conseguenza in aree rivali colme di armi. Ovvero, una sorta di Berlino 1945 in versione maghrebina.
Tutto ciò pone tre tipi di minacce agli interessi nazionali italiani. Primo: la possibilità che gruppi terroristi, come Isis e Al Qaeda, estendano le enclave già occupate e le usino come piattaforma per lanciare attacchi contro il nostro territorio, e l’Europa, come anche azioni di pirateria contro il traffico marittimo nel Mediterraneo. Secondo: il sabotaggio di fonti di energia di importanza strategica per il fabbisogno nazionale, dall’impianto di Mellitah da dove parte il «South Stream» che arriva in Sicilia fino a raffinerie e pozzi off shore. Terzo: la cattura di cittadini o proprietà italiane al fine di ottenere riscatti politici o economici per consolidare il potere di clan e milizie locali.
Poiché si tratta di minacce contro la sicurezza collettiva, l’Italia è chiamata a difendersi. Ma la dottrina militare deve adattarsi a tale scenario. Dalla fine della Seconda guerra mondiale la sicurezza italiana ha avuto come pilastri l’adesione alla Nato e all’Unione Europea ma entrambe tali organizzazioni multilaterali sono state create per fronteggiare pericoli provenienti da Stati con confini, eserciti e governi. La campagna in Afghanistan contro i taleban ed Al Qaeda ha già evidenziato le difficoltà tattiche nella sfida a gruppi terroristi ed ora in Libia, dove i nemici sono ancor più disarticolati, tali problemi tattici aumentano. Perché abbiamo a che fare con una galassia di jihadisti, milizie, clan e trafficanti di ogni tipo.
Da qui la necessità per l’Italia di procedere in una duplice direzione. Da un lato spingere la Nato ad operare con maggiore agilità contro i nuovi pericoli e l’Ue a dotarsi di unità di intervento rapido capaci di entrare in azione con breve preavviso. Dall’altro stabilire dei principi per operare direttamente e in fretta, se necessario. Sono tali principi che dovranno formare il nucleo di una nuova dottrina di sicurezza. Le scelte compiute dai nostri maggiori alleati – Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia – suggeriscono una possibile strada da seguire: l’uso della forza viene deciso per eliminare minacce dirette ed immediate alla collettività così come per portare in salvo cittadini in pericolo di vita. Lo strumento per eseguire tali missioni sono le truppe speciali impegnate in operazioni guidate dall’intelligence: come altri Paesi Nato già fanno e come anche l’Italia può adesso fare dopo l’approvazione delle relative norme dal Parlamento, con i conseguenti decreti di attivazione da parte della presidenza del Consiglio. Ma avere lo strumento non basta: per adoperarlo con efficacia, e nel lungo termine, deve essere accompagnato da una dottrina di sicurezza.
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