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ome spiega Andrea Montanino su La Stampa, le debolezze che frenano il Paese sono tre: il debito, le banche e l’instabilità politica.
Il debito, le banche e l’instabilità politica: tre debolezze che frenano il Paese
Ma ci sono anche i dati positivi, come i 25 anni di avanzo primario
La Brexit aveva portato gli economisti di Washington a immaginare una forte contrazione della crescita inglese; oggi il pericolo sembra rientrato e la revisione al rialzo è addirittura di 0,9 punti percentuali per il 2017, cosa abbastanza inusuale. Lo stesso vale per gli Stati Uniti, dove l’attesa di politiche fiscali espansionistiche da parte dell’amministrazione Trump – tagli di tasse e spesa pubblica – spinge le stime verso l’alto.
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Tra i tanti segni «più», spiccano purtroppo i «meno» che riguardano l’Italia. Per il 2017 e 2018 il Fondo monetario stima una crescita ferma allo 0,8 per cento, inferiore alle stime ufficiali del governo della scorsa settimana. Rispetto alle stime pubblicate dal Fondo monetario a ottobre dello scorso anno, il 2017 e il 2018 sono stati rivisti al ribasso rispettivamente di 0,1 e 0,3 punti di Pil. Quindi, mentre il mondo va meglio del previsto, per l’Italia ancora nubi.
Tre fattori influenzano queste valutazioni. Primo, l’alto debito pubblico. Malgrado il consistente calo dei tassi di interesse dovuto alla politica monetaria accomodante della Banca centrale europea, il debito italiano in rapporto al prodotto interno lordo ha continuato a crescere. La preoccupazione è che l’Italia si possa trovare in un futuro non troppo lontano a sostenere costi elevati per finanziare l’ingente debito, una volta che la politica monetaria avvierà la sua normalizzazione.
Secondo, lo stato del sistema bancario. Alti costi, bassa redditività e crediti incagliati trasmettono segnali ai mercati di un sistema ancora fragile e dove i problemi strutturali non sono stati risolti. Non c’è incontro a Washington dove, al momento di parlare di Italia, qualcuno non ricordi il valore dei crediti incagliati, sottolineando che gli altri Paesi europei, Spagna in testa, il problema lo hanno risolto.
Terzo, l’instabilità politica. A prescindere dal fatto che vi saranno o meno elezioni anticipate, l’Italia andrà al voto entro i prossimi 12 mesi in un contesto di forte incertezza sulla capacità dei partiti tradizionali e europeisti di riuscire a fornire un messaggio convincente all’elettorato. In più, la frammentazione che potrebbe derivare dal voto non garantirebbe la governabilità, proprio quando invece ci sarebbe bisogno di una leadership forte capace di dialogare con francesi e tedeschi sul futuro dell’Europa.
I tre fattori brevemente descritti sono naturalmente una rappresentazione parziale della realtà. L’Italia è l’unico Paese al mondo che ha avuto un avanzo primario nel suo bilancio pubblico ininterrottamente per 25 anni (unica eccezione, il 2009); le sue aziende esportano nel mondo prodotti di prima qualità generando un significativo surplus commerciale; importanti riforme della giustizia, della pubblica amministrazione e del lavoro sono già operative o in fase di implementazione; il governo Gentiloni sta continuando l’azione riformatrice intrapresa dal predecessore; grazie all’euro e all’Europa, non sappiamo più che cosa vogliano dire inflazione a due cifre e la svalutazione competitiva.
Ma l’Italia continua a rimanere fanalino di coda tra le economie europee, malgrado il contesto internazionale favorevole. Il rischio è che, una volta superate le elezioni francesi, si inizi a guardare all’Italia come all’anello debole.
Bisogna allora risolvere quello che c’è da risolvere (banche), chiarire il percorso che porterà alle elezioni, e cambiare la narrativa intorno all’Italia per tornare ad attrarre talenti e capitali. Un solo numero per capire quanta strada ancora possiamo fare: il valore degli investimenti di aziende americane in Italia è circa 28 miliardi di dollari (dati Bureau of Economic Analysis); in Spagna hanno invece investito 62 miliardi di dollari, più del doppio, in un’economia che è il 30 per cento più piccola della nostra.
Per attrarre investimenti, generare crescita e dunque abbassare il rapporto fra debito e Pil servono le giuste politiche e soprattutto stabilità politica in un orizzonte di medio termine. Sarebbe da dire: facciamo come gli inglesi e andiamo a elezioni, se non ci fosse quell’intoppo della legge elettorale.
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