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Castellammare di Stabia

Napoli, le pistole dei ragazzi invisibili e quelle vittime senza colpa. ROBERTO SAVIANO*

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Il racconto. Dal negoziante colpito per caso al giovane ucciso per sbaglio a due passi da una pizzeria famosa. Gli ultimi morti di camorra spesso sono incensurati. Il loro errore? Trovarsi sulla traiettoria dei proiettili delle gang che la città fa finta di non vedere.

Napoli  è tornata a sparare? No, non ha mai smesso: si è solo spenta l’attenzione nazionale. Napoli, 31 dicembre 2015, piazza Calenda, pieno centro storico. Fai due passi e sei da Michele Condurro, la storica pizzeria di Forcella, quella con i tavolacci, sempre affollata di turisti fino a esaurimento pizze. Alle 19.30 entrano in un bar e iniziano a sparare. Muore Maikol Giuseppe Rossi, 27 anni, pregiudicato. Fine. Pregiudicato: non serve aggiungere altro. Questa definizione, purtroppo, ci tranquillizza: “Ah, era uno di loro….”.

E invece no. Rossi aveva precedenti per scippo, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, ma non era lui nel mirino dei killer che forse quella sera non avevano nemmeno un obiettivo preciso. Rossi è stato colpito per sbaglio. E per sbaglio è morto, la sera di San Silvestro, nel centro storico di Napoli. In una zona che in genere è piena di turisti (motivo di vanto per il sindaco De Magistris), ma dove quella sera non c’era nessuno, non una telecamera né forze dell’ordine (promesse dimenticate del presidente della Regione De Luca). Dopo l’omicidio pare che il proprietario del bar non abbia chiamato i carabinieri, ma semplicemente abbassato la saracinesca.

Questa è Napoli.Sapevo di quest’omicidio prima che ne scrivessero i giornali, perché un amico, passando nella zona del Trianon in macchina, voleva fermarsi a prendere una bottiglia d’acqua per il figlio, ma la polizia aveva già transennato la piazza, e il bar era irraggiungibile. Mi ha scritto dicendomi che non era sorpreso, che queste cose possono capitare. Aveva visto un omicidio di camorra nel parco di fronte casa qualche anno prima, un sabato a mezzanotte. Poi la morte di un camorrista che aveva deciso di stabilirsi nel quartiere, uno di quelli che falsificavano assicurazioni, pianto come persona per bene: ” Non ha mai accis’a’ nisciun’, era una persona per bene “.

A Napoli si fanno gli scongiuri, si spera sempre di non trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Mi chiedo come faccia la città ad accettare tutto questo. Il 30 gennaio viene ucciso a Ponticelli Mario Volpicelli, l’uomo che gestiva un negozio “tutto a 50 centesimi”. La sua morte è quanto di più simile possa accadere a chiunque viva in un territorio in guerra. Finiti i Sarno, a Ponticelli ci si spartisce il regno a colpi di tatuaggi che segnano l’appartenenza a due clan avversi: i D’Amico e i De Micco. Volpicelli era cognato dei Sarno e parente dei De Micco, questo è bastato per essere condannato a morte. Questo basta per essere nella lista nera della faida: ogni faida ne ha una, vi sono scritti i nomi di parenti anche lontani, l’obiettivo è sfidare l’avversario colpendo chi è indifeso; decimare il nemico partendo da chi non si sente in pericolo. Conoscete voi un vostro cugino di secondo grado? Il nipote del fidanzato del cugino di vostra moglie? In tempo di faida si è ucciso per questo. I cadaveri sono lettere che vengono spedite.

L’obiettivo è terrorizzare. Tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, azioni dimostrative in tutta la città, dalla zona di Cavalleggeri d’Aosta a due passi dallo stadio San Paolo alla centralissima Materdei: bottiglie incendiarie e sventagliate di kalashnikov per avvertire, intimidire, annunciare rappresaglie. Il primo febbraio, una “paranza” di dieci ragazzi legati al clan D’Amico, armati fino ai denti sugli scooter, ha invaso e terrorizzato San Giovani a Teduccio: l’obiettivo era Raffaele Oliviero, vicino al clan Rinaldi- Reale.

Se guardiamo le azioni di rappresaglia degli ultimi sei mesi, noteremo come la città sia coinvolta tutta, come nessuno possa dirsi al sicuro, e come arresti, processi e condanne, da soli, non abbiano alcun potere di fermare una guerra che va combattuta anche e soprattutto con altri strumenti. Non è possibile leggere questi dati e non comprendere quanto la politica, quella locale e soprattutto quella nazionale, abbia tragicamente fallito.

Maggio 2015, Ponticelli: Ciro Rivieccio, 43 anni, pregiudicato, è ferito con tre colpi d’arma da fuoco. Nella stessa notte di giugno, un 23enne con precedenti penali è colpito alla coscia da un proiettile in via Pallonetto a Santa Lucia, luogo di spaccio, e un altro di 32 anni, neanche lui incensurato, è ferito alla gamba destra durante una sparatoria in via Sant’Anna di Palazzo (dove abitavo quando ancora ero a Napoli).

E poi un 15enne ferito alle gambe nei Quartieri Spagnoli; era incensurato, ma era con un cugino con piccoli precedenti. E ancora, Soccavo: 46enne con precedenti penali raggiunto da proiettili mentre cammina per strada. Via Costa, quartiere San Lorenzo: feriti in una sparatoria tre minorenni a bordo di uno scooter. Il giorno dopo, e siamo a luglio, nella stessa strada colpi d’arma da fuoco contro un’abitazione al piano terra: è la risposta.

A sparare, due ragazzi su un motorino. E poi le “stese” – le chiamano così – di luglio: baby camorristi che mirano a finestre e ad antenne paraboliche trasfor-mando il centro storico in un poligono a cielo aperto. A Fuorigrotta un ragazzo di 21 anni viene raggiunto da un proiettile a una spalla. Si tratta forse di un episodio connesso alla guerra tra ex affiliati ai D’Ausilio, clan di Bagnoli in auge ai tempi della Nuova Mafia Flegrea. In centro, in via Salvator Rosa, un 24enne in scooter viene affiancato da altri ragazzi, anche loro in scooter, che gli sparano.

Nella stessa notte, in vico Nocelle, un 25enne viene ferito da colpi di pistola. A Ponticelli, due ragazzi di 19 e 15 anni restano feriti in una sparatoria.

Ad Afragola, un uomo di 50 anni con precedenti per estorsione e ricettazione viene colpito a una coscia da un proiettile. Ad agosto muore Luigi Galletta, il meccanico vittima della faida di Forcella, un ragazzo per bene, ucciso perché non voleva truccare i motorini della “paranza”. E poi Roberto Rizzo, un ragazzo con piccoli precedenti penali, ferito da colpi di arma da fuoco mentre di notte era in strada con amici.

Agli inizi di settembre un uomo con precedenti per droga viene ferito alla gamba da un colpo di arma da fuoco. Ha detto nell’immediato di avere solo avvertito un bruciore, di non essersi accorto dello sparo. E poi Gennaro Cesarano, il 17enne ucciso in piazza San Vincenzo alla Sanità: i killer in sella a due moto sparano ovunque, il loro obiettivo è fare morti. Segue un raid agghiacciante al Rione Traiano: un numero imprecisato di ragazzi, armati fino ai denti, sparano ininterrottamente facendo esplodere anche una bomba carta. Sul selciato restano circa 60 bossoli di arma da fuoco tra cui quelli di un kalashnikov.

E poi, di nuovo a Fuorigrotta, viene ferito Nicola Barbato, poliziotto impegnato nell’operazione antiracket. A ottobre la prima vittima eccellente è Annunziata D’Amico, detta Nunzia la Passilona, reggente dei D’Amico, condannata a morte dal clan nemico di Ponticelli. Poi Ciro Rosano, pregiudicato, ferito nel quartiere San Pietro a Patierno, mentre a Giugliano due persone in sella a una moto esplodono colpi d’arma da fuoco: nel mirino il figlio di un affiliato al clan Mallardo.

A novembre a Capodimonte quattro uomini armati di pistole e a bordo di due moto seminano il terrore esplodendo colpi in aria. Un ragazzo di 22 anni viene gambizzato ad Acerra e due persone ferite a Miano.

A dicembre, un uomo resta ferito in un agguato a Pianura, un altro ad Afragola. Il 25 gennaio in un agguato a Fuorigrotta viene ferito un 16enne. Poi c’è Giuseppe Calise, 24 anni, ucciso al rione don Guanella mentre il ministro Alfano era in prefettura a parlare della necessità di “far tacere le pistole”. E nella notte ammazzano Pasquale Zito, 24 anni: suo zio era stato ucciso nel 2007. Dopo quest’omicidio, a Bagnoli diversi cittadini hanno dichiarato che “non usciremo di casa” rispettando una sorta di coprifuoco imposto dalla faida.

Ecco: il catalogo della violenza è questo. E probabilmente è incompleto. Sulla stampa nazionale se ne parla solo quando a morire sono minorenni o incensurati. Gli altri agguati sono cancellati, derubricati a normale amministrazione. Qui la normale amministrazione è una guerra quotidiana legata alla droga e nutrita di omertà, combattuta da centauri non ancora maggiorenni. Ho parlato a lungo con il capo della squadra mobile di Napoli: Fausto Lamparelli conferma che si tratta di ragazzi “giovanissimi, disposti a tutto. Sanno di poter ottenere nel breve periodo potere e soldi pagati poi con la vita o l’ergastolo. Qui non si può procedere solo con l’attività di polizia giudiziaria, noi facciamo la nostra parte, ma la camorra va combattuta con lavoro, impegno, investimento. Cose facili a dirsi, ma difficilissime a realizzarsi”.

Certo, se ammettessimo che si tratta di un territorio in guerra, capiremmo come non basta affatto avere ex magistrati alla presidenza del Senato, a capo dell’Autorità anticorruzione, alla guida della città per pensare che tutto quello che si più fare lo si sta già facendo. Non basta. Dobbiamo smettere di trattare Napoli come una città normale. Non lo è: i napoletani vivono sotto i proiettili e abbassano la testa, quindi non sono paragonabili agli abitanti di nessun’altra città italiana. La politica locale sta mostrando il volto peggiore nell’imminenza del voto. E il territorio è abbandonato, nelle mani dei nuovi capi, ragazzini che contano molto più dei rappresentanti politici. Intere aree della Campania sono nelle loro mani, le abbiamo irrimediabilmente perse, e ancora la politica nazionale pretende di fare campagna elettorale fingendo di non vedere.

Mi chiedo perché la città non si ribelli: non si è stancata di valere qualcosa solo sotto elezioni e meno di niente a giochi fatti? Dovremmo pretendere che la nostra città torni a noi. Smettiamo di pensare che l’unico modo che abbiamo per viverci è farlo con un ideologico amore struggente: “Napoli è meravigliosa, chi parla di faide la sta insultando. Questa è romantica omertà che ha come unica conseguenza la rassegnazione.

L’Italia sta morendo, lentamente, silenziosamente, e la ripresa non potrà esserci se metà del suo territorio è completamente fuori gioco perché mancano infrastrutture, investimenti e per di più è prigioniera del potere dei clan in guerra. Pubblicavo Gomorra dieci anni fa, i magistrati che ora il governo utilizza per darsi un Dna antimafioso dissero che era un libro importante non solo per quello che avevo scritto, ma perché avevo ricostruito un quadro d’insieme che mancava e, soprattutto, perché finalmente aveva portato attenzione. Dopo dieci anni, di quell’attenzione non è rimasto nulla.

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