Il primo turno delle presidenziali francesi si chiude con Emmanuel Macron in testa, al 23,76% e Marine Le Pen, che passa al ballottaggio (21,58) ma non stravince. Per la prima volta i due partiti che hanno sempre governato la Quinta Repubblica, socialisti e neogollisti, sono fuori gioco.
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due passi, nelle gallerie delle miniere abbandonate negli Anni Settanta, un tempo 27 nazionalità diverse (tanti gli italiani, ma anche polacchi, spagnoli, marocchini, algerini) lavoravano insieme come fratelli, quando il lavoro c’era, eccome. Alla fine le cifre piombano su un’assemblea surriscaldata, a tratti confusa. La tensione si allenta: Marine è passata al ballottaggio. Ma non ha stravinto.
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Eccola, sale sul palco. Vestita di blu, colore assortito alla bandiera francese (o il rosso ultimamente): lei, che nella vita di tutti i giorni adora Desigual, si traveste da «presidenziabile», come ripetono da mesi in maniera ossessiva i suoi collaboratori. Parla Marine di un «risultato storico». E aggiunge: «Il sistema ha cercato di soffocare il grande dibattito politico, che adesso finalmente avrà luogo». Era quello che sperava da tempo, affrontare Macron, che pure è il candidato più ostico da battere: impossibile, secondo alcuni. Ma che le permette di opporre una volta per tutte «patriottismo» a «mondializzazione». «La posta in gioco – dice – è la mondializzazione selvaggia, che mette in pericolo la nostra civiltà. E che significa deregulation totale e senza frontiere, le conseguenti delocalizzazioni, la concorrenza internazionale sleale». Propone «l’alternanza, ma quella vera, la grande alternanza. E non l’erede di François Hollande». La chiosa è inevitabile: «Bisogna liberare il popolo francese. E io sono la candidata del popolo».
È chiaro, è in atto un’altra virata nella sua campagna. Da una decina di giorni, presa dall’ansia per i sondaggi che davano un calo nel sostegno alla candidata (confermato dal dato effettivo del primo turno), l’équipe della donna aveva deciso di non insistere più sull’uscita dall’euro, che fa molta paura ai francesi. Bisognava mettere da parte quel filone gollista-sovranista ed economicamente sociale e quasi operaista, che Marine ha sposato da alcuni anni, spinta da Florian Philippot, laureato all’Ena diventato vicepresidente dell’Fn. Sì, bisognava ritornare ai «fondamentali» del partito, quelli del vecchio Jean-Marie, vedi l’avversione senza vergogna all’immigrato e la promessa del pugno duro nella gestione della sicurezza. La donna aveva spinto il piede sull’acceleratore dopo l’assalto sugli Champs-Elysées.
Ora, però, si ritrova di fronte l’ex banchiere di Rothschild: la musica cambia. Jean Messiha, altro laureato all’Ena e altro ex funzionario dello Stato, attirato nel girone della Le Pen, è l’economista che ha coordinato la preparazione del suo programma. Sua è l’idea di un «patriottismo economico» e di una tassa sistematica sull’import per aumentare i sussidi di disoccupazione e i salari più bassi. Ecco, Messiha, scomparso da un po’ di tempo, ieri si è di nuovo materializzato sul palco, a Hénin-Beaumont, mano nella mano con Marine, un po’ impacciato, con il suo completo da economista. Perché ora la Le Pen avrà di nuovo bisogno di lui e di Philippot, per fare a tratti «quelli di sinistra», che lottano contro le élite e il capitale. Per attirare il popolo che crede nelle chimere di un populismo sociale. Un popolo lontano da Parigi e dalle banche d’affari. Che non sa più dove guardare.
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