STEFANO LEPRI
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ei primi giorni dopo quegli attentati, i più sanguinosi della storia recente, parecchi avevano espresso il timore che la globalizzazione, allora galoppante, si fermasse. Non fu così, e anzi a posteriori possiamo vedere che l’andamento dell’economia fu influenzato più da altri fattori: negli Stati Uniti soprattutto i postumi della precedente ubriacatura per le nuove tecnologie.
A Parigi dopo gli attentati del 13 novembre sul momento i danni erano apparsi pesanti: prenotazioni in albergo e vendite nei grandi magazzini si erano quasi dimezzati. Ma poi, a conti fatti, il traffico negli aeroporti risulta diminuito solo del 6% durante le due settimane successive; la Banca di Francia ha stimato una minor crescita di appena un decimo di punto nel quarto trimestre.
Insomma è possibile sostenere che gli effetti del terrorismo sull’economia sono minori di quanto l’orrore della notizia e le prime reazioni facciano presumere. Una spiegazione hanno tentato di offrirla anni fa due economisti, il premio Nobel Gary Becker (scomparso nel 2014, uno dei capi della scuola neoliberista) e Yona Rubinstein.
Analizzando il periodo di attentati in Israele noto come seconda Intifada, cominciato nel 2000, che in 5 anni causò la morte di circa 900 civili israeliani soprattutto in attentati sugli autobus o per strada, i due concludono che a spaventarsi davvero, cambiando comportamento, sono gli «occasionali», ossia coloro che non hanno forti motivazioni per fare qualcosa, e i meno informati.
Invece chi esercita costantemente una attività, viaggia per necessità di lavoro, ha esperienza dei luoghi e delle persone con cui entra in contatto, cambia poco le proprie mosse: stringe i denti e sopporta i rischi. Quanto agli svaghi, Becker e Rubinstein hanno riscontrato che le famiglie tendevano a restare più in casa, i «single» uscivano la sera allo stesso modo di prima.
E’ su una linea simile, in fondo, la reazione delle Borse ieri. A Milano, hanno accusato il colpo i titoli del lusso, legati ai consumi voluttuari, oppure quelli del consumo occasionale di massa. Il grosso dei titoli industriali, soprattutto quelli della produzione di beni durevoli o legati ai consumi duraturi, ha resistito bene.
Potrà capitare di viaggiare di meno per vacanza, o di effettuare acquisti spensierati. La cosa non è affatto irrilevante in un Paese come il nostro, dove il «made in Italy» ha una importante componente di lusso, e il turismo ha un grande ruolo. E’ improbabile al contrario che la gente rimandi l’acquisto di una casa, di una automobile, di un computer.
Oltre è difficile andare, nelle previsioni. Più serio è il discorso sull’accumulo di eventi che possono contribuire a frenare gli scambi e a peggiorare le attese; c’è sempre un filo di paglia in più che spezza la schiena al cammello. Se controlli severi negli aeroporti si sommeranno alla temporanea chiusura dei confini già in atto, i danni potrebbero a poco a poco diventare gravi.
Il rischio maggiore lo avevamo già davanti, la fine dell’area Schengen, dato il numero enorme di pendolari a cavallo delle frontiere, e la quantità di lavorazioni distribuite tra diversi Paesi con arrivo dei pezzi in tempi stretti. Al contempo, tuttavia, un impulso positivo lo potrebbero fornire le maggiori spese per la sicurezza e per la sistemazione dei migranti.
*lastampa/ L’economia e il pericolo attentati STEFANO LEPRI *
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