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l centro di ascolto di Rubano, in provincia di Padova, raccoglie le storie dei ricatti che oltre sessanta badanti, italiane o straniere, hanno dovuto subire dai datori di lavoro, pur di guadagnare qualche euro. “La crisi ha reso queste donne ancora più fragili e sole – dice la responsabile del centro – e molte di loro continuano a lavorare nonostante le violenze quotidiane. Non ce la fanno a denunciare, quasi tutte accettano di sottostare al ricatto dei superiori per ragioni economiche e di pudore sociale”.
La battaglia di Mara contro le violenze quotidiane
In Veneto un’ex sindacalista dà vita a un centro che difende le vittime. Così badanti e segretarie sopravvivono a dolore e umiliazione
Si presentano. Bevono un caffè. Lei mostra le referenze. «Per me vai bene», dice lui dopo averla guardata. «Domani iniziamo il periodo di prova». Però ricordati: per l’assunzione, dovrai comportarti nel modo giusto». E adesso è lei a parlare, come un fiume in piena: «Sono andata a casa sua il giorno dopo, era in centro a Padova. Dovevo fare le pulizie ed essere a servizio per 12 ore. Il secondo giorno mi ha chiamato mentre era in bagno, chiedendomi di portargli l’accappatoio: era nudo. Il terzo giorno aveva un problema alla schiena, così mi ha chiesto un messaggio che ho dovuto fargli. Poi mi ha detto che quando è nella vasca vuole essere insaponato completamente. Ha detto che in Italia funziona così. Se non mi va bene, per lui non è un problema. Tanto c’è la fila di donne pronte a sostituirmi».
Sessanta badanti, solo nel piccolo centro di ascolto di Rubano, a 10 chilometri da Padova, hanno raccontato la stessa storia negli ultimi mesi. Sono sfoghi, non denunce. Sono pianti al telefono e richieste d’aiuto. Cambiano pochi dettagli ogni volta. Altri alberghi: Abano Terme, Ponte di Brenta, Montegrotto. «Perché vedersi in hotel serve un po’ per impressionare l’aspirante lavoratrice, ma soprattutto per evitare di aprire la porta di casa a qualcuno che ancora non si conosce. Soprusi e diffidenze, da queste parti, convivono continuamente».
In trincea
La signora Mara Bertini occupa questa specie di trincea. Un piccolo ufficio concesso dal Comune di Rubano, dove accoglie le vittime sotto ricatto sessuale. Si chiama «Associazione Progetto Donna Oggi». Nell’ultimo anno: 91 italiane, 2 brasiliane, 1 bulgara, 3 filippine, 1 israeliana, 1 maliana, 5 marocchine, 5 moldave, 3 nigeriane, 2 peruviane, 2 ucraiane, 1 polacca, 1 romena, 1 serba. «La crisi ha reso queste donne ancora più fragili e sole», dice la signora Bertini. «Molte di loro continuano a lavorare nonostante le violenze quotidiane. Non ce la fanno a denunciare, quasi tutte accettano di sottostare al ricatto dei superiori per ragioni economiche e di pudore sociale. Abitano in piccoli paesi dove verrebbero subito additate. Si ritroverebbero terra bruciata intorno. Chi denuncia viene isolato dai suoi stessi vicini. Come se fosse qualcuno che vuole male a questa terra e alla sua città. Molte donne hanno paura anche soltanto di parlare».
Il caso di un’insegnante ricattata dal preside: «Mio marito era morto da due mesi, quando si è fatto avanti chiedendomi di fare sesso con lui. Eravamo a scuola. Nel suo ufficio. Subito dopo il mio rifiuto, è iniziata la mia disgrazia professionale. Mi hanno spostata, cambiata di orario, sto soffrendo di depressione. E la cosa peggiore è che presto quell’uomo tornerà ad essere il mio dirigente». Il caso delle selezioni per una segretaria «docile e di bella presenza». La ragazza di 26 anni che durante il dottorato, in una delle più prestigiose università della zona, si è sentita dire: «Se ti vesti in modo sexy, ti assicuro che avrai più possibilità». C’è una frase ricorrente, a quante pare, in molti uffici italiani: «Ti interessa o no questo scatto di carriera?».
«Sono uomini dai 50 anni in su. Un medico, un politico molto importante, un professore, piccoli imprenditori, artigiani. Molti vedovi che non vogliono più impegnarsi in altre relazioni sentimentali e pensano che pagando 1300 euro al mese a una collaboratrice domestica, possano risolvere tutti i problemi della loro esistenza. Sono dei porci». La signora Bertini ha ricevuto minacce per questo suo piccolo sportello a difesa delle donne. Qui nel profondo Veneto, la discrezione è considerata una virtù sacra. E può succedere anche che dare pacche sul sedere, da un superiore a una dipendente, venga considerata da un giudice soltanto un gesto di «goliardia
«Solo goliardia»
Un mese fa è stata archiviata la denuncia di una donna contro il suo capufficio, lavoravano nello stesso settore contabile di una grande azienda. Il gip di Vicenza ha archiviato con queste motivazioni: «Il gesto è generalmente censurabile. Ma non si ravvisano ipotesi di reato che possano essere sostenute in giudizio. Non c’era un intento morboso. La sculacciata era stata data con spirito goliardico, senza provocare lesioni e soprattutto senza morbosità…». Insomma: non è reato toccare il sedere. La notizia scovata da Diego Neri del Giornale di Vicenza sta scatenando un dibattito molto accesso in città, ma il messaggio che passa ancora una volta è contro le vittime.
Perché anche chi riesce a denunciare e poi infine a vincere la causa, soffre. Soffre ancora. Soffre sempre. È il caso di una dipendente di un’impresa di pulizie della zona di Padova, difesa dall’avvocato Nicola Mele. La ragazza dice soltanto: «Sto ancora malissimo. Non me la sento di parlare. Quella violenza ha cambiato la mia vita. Sono in cura da una psicologa. Ma è giusto che la storia si sappia».
La sentenza di primo grado parla per lei: «La signora X ha riferito di essersi recata come consueto verso le 18,30 presso la sede della Nogara trasporti di Sondrigo, in provincia di Vicenza, per eseguire le pulizie degli uffici, quando, usciti tutti i dipendenti e gli i ultimi clienti, si trovava a pulire il telefono posto sulla scrivania di un’impiegata proprio nel momento in cui l’apparecchio squillava. Sicché richiamava l’attenzione del titolare, il quale entrava nell’ufficio aprendosi la cerniera dei pantaloni ed allungando una mano nel tentativo di toccarle le parti intime, non riuscendovi perché la ragazza prontamente ne spostava la mano e approfittava del tempo della telefonata per nascondersi sotto la scrivania di un altro ufficio. Già prima di allora, l’Orfeo Nogara si era più volte rivolto alla giovane con frasi scurrili a sfondo apertamente sessuale, nonostante il chiaro atteggiamento di distacco manifestato dalla stessa». Il proprietario della ditta di trasporti insiste, lei anche nell’opporsi. E qui, la sentenza firmata da giudice Barbara Maria Trenta continua così: «Alle immediate minacce del Nogara di farle perdere il lavoro, la ragazza rispondeva che lei stessa avrebbe avvisato il suo titolare, così scatenando una nuova furia dell’aggressore, che riusciva a prenderla violentemente per il braccio destro nel tentativo di trattenerla». Seguono un pugno sul parabrezza dell’auto di lei in fuga. Seguono lacrime. Tutto questo, in primo grado, ha portato a una condanna a 2 anni e 8 mesi di reclusione e al risarcimento di 10 mila euro per il danno e di 4200 euro per le spese processuali. Non è facile ricominciare dopo.
«Almeno spogliati»
Questa è la voce fragile come carta velina di una ragazza di 25 anni, arriva da un piccolo paese nella zona di Mestre. La famiglia è in crisi nera, due genitori disoccupati a rischio sfratto. «Volevo trovare un lavoro per aiutarli. Ne avevo bisogno. Per farlo ho messo un annuncio sul sito Subito.it Ho scritto il mio nome, l’età, gli studi, la conoscenza dell’inglese. Cercavo un posto da segretaria o receptionist. Mi hanno risposto in cinque, quattro mi hanno scartata dopo la prima telefonata perché avevo scarsa esperienza. Il quinto invece….». Ecco la prima risposta: «Buongiorno, ho appena visto la sua inserzione. Mi presento, sono il dottor Stel della Medyterranea, sto cercando una ragazza da inserire come segretaria assistente del titolare… Cerco una persona di mia fiducia, che sia disponibile anche a spostamenti al mio seguito quando andiamo a fiere ed eventi di settore». Il quinto messaggio è questo: «Ok, quindi posso stare tranquillo che, dopo aver fatto il colloquio anche assieme a suo padre, se poi è tutto ok, quando ci rivedremo, non avrà problemi a fare qualcosa insieme? Almeno si dovrà spogliare. Cioè, dovrei farmi un’idea concreta». Come immaginate sia finita questa storia?
«Lui è stato condannato in primo grado, ringrazio i miei avvocati Valentina Bettin e Giuseppe Cherubino che hanno sostenuto e vinto questa battaglia con me. Ma io vivo ancora con il terrore di trovarmelo davanti. Ho smesso di avere fiducia negli altri. Vivo sola. E ho accettato un lavoro in nero come donna delle pulizie». Questo è solo un viaggio in una regione d’Italia senza alcuna pretesa statistica, a 6653 chilometri in linea d’aria dalla rivoluzione delle donne che sta cambiando gli Stati Uniti d’America.
vivicentro.it/cronaca
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lastampa/La battaglia di Mara contro le violenze quotidiane NICCOLÒ ZANCAN – INVIATO A PADOVA
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