A
lmeno una cosa è chiara, nel confuso scenario dell’intervento in Libia: Renzi non ha alcuna intenzione di entrare in guerra, né di accelerare la realizzazione degli impegni presi fin qui sul piano internazionale, in particolare con gli Usa, che premono perché l’Italia assuma effettivamente la guida della missione sulla sponda che guarda la costa siciliana. L’ondata emotiva sollevata giovedì dall’uccisione dei due operai italiani sequestrati, fortunatamente seguita ieri dalla liberazione degli altri due ostaggi, non ha fatto cambiare idea al presidente del Consiglio, sempre più convinto che in questo momento la Libia sia un vespaio, con in corso una guerra per bande, in cui sarebbe rischioso e sbagliato andarsi a cacciare.
Interventi «chirurgici», azioni di intelligence contro obiettivi mirati, sì. Ma niente fughe in avanti.
Renzi si è rafforzato nelle sue convinzioni ragionando proprio sugli opposti destini toccati ai quattro emigrati italiani: i primi due sarebbero stati vittime di una banda affiliata all’Isis.
Gli altri due sarebbero stati liberati dai loro avversari, che ovviamente, nel restituirli alle autorità italiane, si sarebbero presentati come nostri alleati.
In un quadro del genere, è difficile stabilire a chi credere e ancor di più capire che margini avrebbe un governo di unità nazionale imposto dalla comunità internazionale. Sta di fatto che quel governo che avrebbe dovuto insediarsi già uno o due mesi fa, ancora non c’è. Questo è l’esile gancio a cui è appesa la resistenza di Renzi. Una posizione razionale, ma giorno dopo giorno sempre più difficile da sostenere, mentre gli Usa bombardano con i droni partiti da Sigonella e francesi e inglesi sono già in Libia.
Ma così come gli attentati di Parigi del 2015 a Charlie Hebdo e al Bataclan sono considerati legati alla decisione di Hollande di scegliere la linea dura contro il terrorismo islamico e puntare sulla Libia, anche la sorte dei due operai italiani uccisi e degli altri due liberati prima di essere condannati a morte è il primo effetto del ruolo più visibile assunto dall’Italia. Basta solo ricostruire la sequenza delle ultime settimane: le lodi del segretario alla Difesa americana Carter all’Italia dopo l’incontro a Palazzo Chigi con Renzi e l’annuncio della disponibilità italiana a coordinare la missione in Libia.
L’incontro a Washington tra Obama e il presidente Mattarella, seguito dalla convocazione, da parte del Capo dello Stato, del Consiglio supremo di difesa, e dal decreto del governo che apre alla collaborazione, in Libia, tra i servizi e i corpi speciali delle Forze armate italiane. L’Italia è entrata così nel mirino dell’Isis, prima ancora di aver mosso un dito in territorio libico. E per Renzi, dopo quel che è accaduto agli italiani sequestrati, ora c’è una ragione in più per tenere subordinati gli impegni presi con gli alleati all’effettivo insediamento del governo libico e alla creazione di una coalizione internazionale in cui Usa, Francia e Inghilterra collaborino realmente, e non si muovano in ordine sparso come hanno fatto finora.
Una logica del genere, è inutile nasconderlo, in prospettiva è difficile da accettare per gli Usa, che avevano salutato la disponibilità italiana come garanzia di affidabilità di un vecchio alleato. Renzi insomma è entrato in una strettoia, perché in questo momento, in Europa, ha bisogno dell’appoggio di Hollande e Moscovici per ottenere flessibilità e aiuti per l’immigrazione, evitare la procedura d’infrazione e portare a casa l’approvazione della legge di stabilità a Bruxelles. Ma allo stesso tempo sa di non poter reggere a lungo le pressioni americane.
Pur razionale, di fronte alla confusione libica, la linea attendista che prevedeva un primo e un secondo tempo tra il dire e il fare – subito gli impegni diplomatici e solo dopo le iniziative strategiche e militari – è messa a dura prova. La sensazione è che anche per l’Italia il conto alla rovescia si stia avvicinando.
*lastampa
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