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La Shoah del 27 gennaio 2019 vista con gli occhi delle donne vittime e carnefici

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È dedicata alle tantissime donne che furono vittime e anche a quelle carnefici, la Giornata della Memoria 2019 per la Shoah (l’Olocausto).

L’idea è della presidente delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, inquietata dal persistente serpeggiare in Europa di un anti-semitismo sempre pericoloso che si sta allargando a una paura per lo straniero in genere assai prossima al razzismo. Difficile dire se nella privazione della libertà, nello sfruttamento del lavoro, a volte perfino nelle torture abbiano sofferto più le donne degli uomini o viceversa. Ma certo il dolore di una donna e madre dentro, allontanata dai suoi figli, incerta sul loro destino, angosciata per la loro sorte, terrorizzata dal non sapere cosa potesse esser loro capitato deve essere stato enorme, lacerante, indicibile.

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto. È stato così designato dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005, durante la 42ª riunione plenaria.

Da fonti e testimonianze dell’epoca, scelte dalla Rete e ivi riportate in modo molto riassuntivo,emerge il dramma indicibile di quelle prigioniere in tutta la sua violenza, tragicità, perfidia e sociopatia ideologica dei loro aguzzini/e. Ma altrettanto sconcertante è l’ipocrisia culturale mondiale, politico-istituzionale-moralizzatrice, che per decenni ne ha fatto rimuovere i dolorosi specifici eventi, rendendone possibile la conoscenza solo di recente.

Le donne giungevano al lager dopo un lunghissimo viaggio ammassate su carri bestiame denutrite, assetate e in pessime condizioni igieniche. Scese dai treni venivano separate dai familiari, costrette ad abbandonare i loro figli senza sapere che non li avrebbero mai più rivisti. Venivano divise in file, spogliate e sottoposte ad una prima selezione: le più anziane e deboli erano subito caricate su un carro diretto alle camere a gas, le altre venivano condotte alla baracca della disinfestazione. Sul percorso si potevano notare montagnole di stampelle, di occhiali, di giocattoli ben divisi secondo il senso dell’ordine teutonico. Giunte alla baracca dovevano spogliarsi e abbandonare tutti gli oggetti che indossavano, ad esempio orologi o gioielli. Mentre attendevano l’ora della “doccia” sostavano tutte nude, in fila, tremanti e diventavano bersagli di sguardi sprezzanti, risate sfrenate, gare di sputi tra i soldati e, non di rado, oggetto di scherni con dei bastoni che frugavano i loro corpi. A tutto ciò si aggiungeva il rischio di essere messe da parte per una macchia sulla pelle, per un foruncolo o per l’età più visibile senza gli abiti.

Oltre alla lotta per non morire, le donne più belle e le più giovani, rischiavano di essere selezionate per i bordelli dove erano costrette ad “usare” il loro corpo per invogliare al lavoro gli altri prigionieri. Essere donne in un campo di concentramento era molto più che umiliante, oltre ad essere inferiori quando ebree, erano considerate oggetti perché femmine. A loro venivano consegnati vestiti maschili con tutti gli inconvenienti che portavano: mutande senza elastici che cadevano e calze che si ripiegavano sulle gambe. Per la donna non c’era tregua, nei primi mesi di permanenza nei lager il flusso mestruale si riproponeva e non esisteva materiale per difendersi; chi era fortunata trovava in terra uno straccio da utilizzare ma chi non lo era doveva lavare le mutande e indossarle bagnate. Successivamente però, a causa della scarsa alimentazione, della qualità del cibo e dell’estenuante lavoro il flusso si bloccava per la maggior parte delle prigioniere (evento positivo da un lato ma ulteriore prova di come la femminilità scompariva). L’apparato genitale femminile inoltre attraeva l’interesse dei criminali nazisti che si spacciavano per scienziati. A molte prigioniere si prelevavano campioni di tessuto dell’utero per essere in grado di giungere a diagnosi tempestive di eventuali tumori, con raggi X si sterilizzavano le ovaie, si asportava l’utero o vi si iniettava un liquido irritante: pratiche queste che dovevano servire a sterilizzare le razze inferiori. I medici disponevano di un numero inesorabile di “cavie” ebree, costrette a sottoporsi a dolorosi interventi chirurgici, prive di anestesia o con anestesia insufficiente. Ed ecco l’alimentazione: al mattino c’erano solo due bidoni di caffè per 800 persone cosicchè pochissimi riuscivano a prenderne mentre, a mezzogiorno, v’era una specie d’appello per poter distribuire la zuppa. Il rancio arrivava alle ore più disparate, dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, quindi non si sapeva mai a che ora sarebbe avvenuta la distribuzione. Ogni cinque persone veniva data una gamella con un litro di minestra, nessuno aveva un cucchiaio e così dovevano bere nella stessa ciotola, a sorsi. La zuppa era talmente disgustosa che i primi giorni molte donne non mangiavano.

Una clamorosa testimonianza è stata riportata dalle sopravvissute che lavoravano in cucina ad Auschwitz: hanno affermato che una dottoressa SS metteva nelle caldaie un prodotto chimico, che dava alla zuppa un sapore acidulo e provocava nella bocca e poi nello stomaco e nei visceri un vivo senso di bruciore, prurito esterno al ventre, gonfiore e macchiette rosse, che avevano l’apparenza di piccole abrasioni rettilinee. Alcune preferivano non mangiare la zuppa e alimentarsi di patate crude che riuscivano a sottrarre ai carri che le portavano in cucina. Quasi tutte avevano la bocca piena di sfoghi e la lingua crepata e solcata da tagli profondi, che impedivano perfino di mangiare. Tutte le donne sopravvissute sono concordi nel dichiarare che ciò era provocato dai prodotti chimici che venivano messi nella zuppa perchè mai in altri campi di concentramento il fenomeno si ripetè, per quanto malnutrite fossero.

In tutti i lager la malattia più comune era diarrea e dissenteria, in forme gravissime e spesso mortali. Nonostante questo le donne riuscivano a tenersi più o meno pulite perchè acquistavano il sapone in cambio di pane dagli uomini, i quali perciò erano molto più sporchi e pieni di pidocchi. Le internate dovevano affrontare giornate di duro lavoro senza mai fermarsi, nemmeno se malate o senza forze. Tra le lavoratrici si diffuse così una società pregna di solidarietà, pian piano si affermò una voglia mai sopita di ribellarsi e si ricorse al sabotaggio. Le manifestazioni di maggiore solidarietà nel campo si avevano nei confronti delle donne incinte: si raccoglievano stracci e panni per poter cambiare i neonati, si rubava un po’ di carbone dal lavoro perchè il calore nelle stanze era totalmente insufficiente, si procuravano bottigliette da utilizzare come biberon e molte madri che avevano ancora latte dopo la morte dei loro bimbi allattavano altri neonati.

Ad Auschwitz esisteva un bordello per i prigionieri non ebrei che venivano “ricompensati” con incontri sessuali e i nazisti guardavano attraverso un foro per assicurarsi che praticassero solo la posizione del missionario. Proprio dietro il famoso cancello con la scritta “Il lavoro rende liberi” del campo di concentramento di Auschwitz si trova uno degli orrori meno noti della seconda guerra mondiale: un bordello per i prigionieri. L’obbiettivo era quello di aumentare la produttività dei prigionieri torturati e affamati, offrendo loro una sorta di bonus se avessero lavorato abbastanza: sarebbero stati “premiati” con una visita al bordello del campo. La prima “Casa delle bambole”, come era chiamata, è stata realizzata un anno dopo, nel 1942, nel campo di concentramento di Mauthausen in Austria, a cui seguirono quelle di Ravensbruk, Buchenwald, Dachau e Flossenburg. In totale c’erano dieci bordelli.

Per il 70% le donne erano tedesche e le restanti provenivano dai paesi occupati: ucraine, polacche o bielorusse, escluse le italiane e le ebree ritenute contaminanti per il loro sangue non ariano. Le prescelte erano tutte sotto i 25 anni di età e predisposte a prostituirsi dopo un periodo di violenze e stupri, con la promessa, che non venne però mai mantenuta, della concessione della libertà dopo sei mesi di “lavoro”. L’istituzione dei bordelli venne propagandata anche con la giustificazione morale che in questo modo si evitava il più possibile la “degenerata” omosessualità diffusa nei campi tra i prigionieri e non solo tra loro. I postriboli dei lager potevano essere normalmente utilizzati dal personale di guardia al campo, dagli internati criminali comuni (contraddistinti dal triangolo verde) ed in generale dagli uomini di razza “ariana” ma non dagli ebrei e dai prigionieri di guerra russi.

Per la gestione dei bordelli furono fu istruito dello specifico personale affinché i prigionieri uomini e donne fossero “puliti”, le donne venissero sterilizzate ed era permessa solo la posizione del missionario. Le SS guardavano attraverso dei fori per assicurarsi che le donne non trascorressero più di un quarto d’ora con ogni prigioniero.

Nei campi era presente una gerarchia: le prigioniere ariane (delinquenti comuni, prostitute, politiche) avevano qualunque diritto sulle donne. Le detenute alle quali spettava la direzione del campo di sterminio, le kapò, erano prese tra le assassine delle carceri, tra quelle che avevano fatto le cose più atroci, in modo che potessero tranquillamente bastonare a morte una prigioniera che non obbedisse ciecamente agli ordini. Al di sopra delle kapò c’erano le SS donne (ma solo poche di loro sono state condannate dopo la guerra), che avevano stivaloni con un puntale di ferro, ufficialmente per non consumare la suola, ma, in realtà, per sferrare calci più violenti.

Le donne non ebree erano attirate come volontarie, con la promessa di una migliore condizione di vita e di maggiori razioni alimentari. Soprattutto le ventenni, facevano sesso con una media di 6-8 uomini ogni sera tra le 20 e le 22. Dovevano lavorare anche la domenica pomeriggio. I macilenti prigionieri scelti per i bordelli erano sottoposti a un umiliante controllo medico, sui genitali veniva applicata una crema disinfettante; venivano chiamati nell’appello generale e marciavano forzatamente verso il bordello. Ma gli uomini, spesso erano troppo deboli fisicamente o malati per impegnarsi in un rapporto sessuale. La sopravvissuta Zofia Bator-Stepien ha ricordato come una ragazza fu spinta a lavorare nel bordello: avrebbe fatto qualsiasi cosa per una fetta di pane. Si offrì volontaria non sapendo quale lavoro l’aspettasse, ma non battè ciglio quando il medico le disse che sarebbe stata sterilizzata e non avrebbe più potuto avere figli. Voleva solo un po’ di pane. A frequentare il bordello sembra fossero anche i soldati, alcuni ucraini e bielorussi, e ci sono molte testimonianze sul fatto che le donne avevano tutte le ultime notizie riguardanti la guerra. Dopo aver concluso l’esperienza nel bordello, alcune diventarono funzionarie nel campo e altre sopravvissero alla guerra ma pochissime hanno parlato della loro esperienza. La Bunalska ha detto al MailOnline:”Lavorare nel bordello ha dato loro la possibilità di vivere. Ora vediamo le cose in una prospettiva diversa ma allora era una scelta semplice: o il bordello e la sopravvivenza o le camere a gas di Birkenau”. I bordelli di Auschwitz furono chiusi nel gennaio del 1945 quando il campo fu evacuato per sfuggire all’avanzata dell’Armata Rossa.

E nei confronti di alcune donne c’era stato persino un campo di concentramento specifico. Ravensbrück. Si trattava di un lager a nord di Berlino. E’ stato taciuto per tantissimi anni. Hitler, nel maggio del 1939 lo aprì come lager per sole donne. Dal maggio del 1939 al 30 aprile 1945 sono passate da lì circa 130 mila donne, provenienti da 20 nazioni diverse e 50 mila sono morte. Lo scopo del terzo Reich era quello di eliminare le donne “non conformi”, prigioniere politiche, lesbiche, rom, prostitute, disabili, senza fissa dimora, malate di mente, testimoni di Geova, contestatarie, donne semplicemente giudicate “inutili” dal regime, e solo il 10% di queste donne erano ebree.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale questi aspetti del regime nazista vennero nascosti, anche con la complicità delle stesse vittime che si ritenevano in certo modo colpevoli di essere sfuggite alla sorte delle altre donne dei prostituendosi campi (e di certo il generale ambiente culturale ancora all’epoca molto diffusamente bigotto e ipocrita le induceva in questo). I due stati tedeschi sorti dopo la guerra si trovarono concordi nel negare alle donne dei bordelli la loro condizione di vittime e il diritto a qualsiasi risarcimento ipotizzando il loro, sia pur giustificato, consenso. Solo dopo gli anni ’90 i lagerbordell cominciarono ad essere conosciuti dal grande pubblico attraverso l’opera di studiosi che hanno rivelato questa ulteriore forma della tragedia nazista in Germania.

I terribili traumi riportati nei campi di concentramento sono durati tutta la vita. L’incredulità e l’indifferenza di chi non ha conosciuto i lager si sono evidenziati con una totale mancanza di interesse per la tragica esperienza di quelle donne. Ciò ha condotto molte deportate ad un graduale isolamento e ad un dannoso ripiegamento su se stesse. Diverse patologie si sono impadronite e hanno turbato fino alla fine il loro stato fisico e psichico. Ad esempio, un’anziana deportata ebrea era tormentata da musiche e suoni che aveva udito nel lager e che improvvisamente le rimbombano nelle orecchie, come se ancora si fosse trovata rinchiusa ad Auschwitz. Di altre sappiamo che hanno trascorso periodi più o meno lunghi in ospedali e luoghi di soggiorno climatico, per forme di tubercolosi, gravi disturbi cardiaci, forme acute di insufficienze respiratorie e arteriosclerosi precoce che degenera in stati depressivi e di rifiuto della vita. Per alcune donne non è mai cessata la sofferenza indicibile di essere state violentate; quindi doppiamente annullate, nella dignità e nella libertà. Ciò che ha accomunato tutte le donne, fossero esse deportate politiche, ebree o zingare, era il sentimento di solidarietà verso le loro compagne di sventura, tra le quali non esisteva discriminazione per differenze di religione, tradizioni, lingue, costumi, educazione. Questa stessa solidarietà ha permesso a molte di loro di fare ritorno nelle proprie case. Tutte vissero tragicamente la perdita dell’identità individuale; traumatico fu denudarsi tra le brutalità degli aguzzini, vedersi un numero tatuato sul braccio, vedersi rasate a zero. Non erano più donne, non erano più individui. È significativo constatare che in loro non c’è assolutamente odio, ma solo volontà e speranza che certe esperienze non debbano più ripetersi.

L’opinione.

È significativo constatare che in loro non c’è assolutamente odio, ma solo volontà e speranza che certe esperienze non debbano più ripetersi”. Leggere e provare ad immaginare quei luoghi, quelle sofferenze fisiche e mentali di quelle donne, quell’angoscia che doveva bloccare il respiro, fa rabbrividire. Ma quanto sopra accade ancora risaputamente in diverse parti del mondo, in Nazioni con regimi o fondamentaliste, senza reali Diritti umani uguali per tutti. Succede per certi circoscritti versi quasi sotto casa nostra. In una Nazione cosiddetta occidentale, civile, repubblicana e democratica, come l’Italia, si abbia, almeno in questo, l’attenzione intellettuale di guardare la nostra opaca realtà e pertanto di regolarizzare la prostituzione (femminile e maschile) specialmente d’importazione, togliendola dal mondo grigio se non anche oscuro, specialmente dal profitto della criminalità organizzata, da delinquenti e usurai locali senza scrupoli, da maitresse sfruttatrici, da politici papponi, ma senza perseguitarla come vorrebbero i facili moralisti e integralisti, oppure voltandosi altrove o eludendo con retoriche e sermoni, bensì regolarizzandola con leggi moderne, civili, chiare, serie, severe , sanitarie, fiscali, tutelando chi vuole svolgere il mestiere come pure chi non lo vuole sotto casa o prossimo alle scuole, lungo le strade cittadine, ecc.

L’immagine è inerente il bordello di Mauthausen.

Adduso Sebastiano

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