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Castellammare di Stabia

La Prostituzione può essere considerata attività produttiva di reddito tassabile?

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a Corte di Cassazione con la Sentenza 1° ottobre 2010, n. 20528, ha stabilito che anche la prostituzione tra adulti deve essere soggetta a tassazione, poiché è un’attività “lecita”. Di conseguenza, a partire dalla suddetta data in Italia, il meretricio dovrebbe essere un’attività tassabile a tutti gli effetti per cui proviamo a fare chiarezza con l’Avv. Laura Bazzan per vedere cosa prevede la legge italiana e cosa dice la giurisprudenza

Prostituzione e tasse facciamo chiarezza . Avv. Laura Bazzan

Compiutamente regolamentato o semplicemente tollerato, il commercio del proprio corpo mediante il compimento di atti sessuali in cambio del corrispettivo di una somma di denaro o di altra utilità economica può essere considerato attività produttiva di reddito tassabile?

La situazione in Europa
La configurabilità della prostituzione quale “prestazione di servizi retribuita” è stata avallata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza n. 268 del 20.11.2001, causa C-268/99, nella quale, recepito il costante orientamento giurisprudenziale che qualifica attività economica ai sensi dell’art. 2 CE (ora art. 3 TUE e art. 119 TFUE) ogni prestazione di servizi retribuita purché reale ed effettiva e non tale presentarsi come marginale ed accessoria, la corte di Lussemburgo ha ritenuto prerogativa di ciascun giudice nazionale “accertare in ciascun caso, alla luce degli elementi di prova che gli sono forniti, se sussistono le condizioni che consentono di ritenere che la prostituzione sia svolta come lavoro autonomo, ossia: senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive, sotto la propria responsabilità, e a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente“.
La tassazione del reddito derivante da prestazioni di natura sessuale è espressamente disciplinata in taluni Stati europei ove, in conformità al principi di uguaglianza e proporzionalità, i soggetti esercenti il meretricio sono tenuti a corrispondere all’erario i tributi sulla base del reddito imponibile prodotto. È il caso degli Stati membri in cui vige il modello cd. regolamentarista, che prevede regolamenti di natura amministrativa per l’esercizio della prostituzione, la delimitazione delle aree o dei locali in cui può essere praticata l’attività e la tenuta di apposti registri con l’indicazione dei nominativi delle esercenti la professione. La prostituzione, pertanto, lungi dall’essere considerata attività illecita, viene attualmente disciplinata e tassata al pari di qualsiasi altra attività in Grecia, Ungheria, Paesi Bassi, Austria, Germania e Lettonia ove le sex workers hanno diritti e doveri analoghi ai comuni prestatori di lavoro, con possibilità di accesso alla previdenza sociale e di riunione in sindacati. Lo stesso, all’interno dei confini europei ma al di fuori di quelli dell’Unione, accade anche in Svizzera
La situazione in Italia
L’Italia ha adottato nei confronti del fenomeno prostituzione un modello cd. abolizionista che consiste nel considerare la prostituzione fatto non penalmente rilevante, ma sfavorendola indirettamente il attraverso la criminalizzazione di attività collaterali, quali sfruttamento, induzione e favoreggiamento, senza regolamentarne ulteriori aspetti.
A partire dalla sentenza n. 20528/2010, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito la soggettività tributaria passiva dell’attività di prostituzione “dal momento che pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita“. Alla medesima soluzione è pervenuta anche la sentenza n. 10578/2011 che, muovendo dalla considerazione che la prostituzione costituisca una prestazione di servizi retribuita secondo quanto espresso nella sentenza della Corte di Giustizia n. 268/2001, ha concluso per l’assoggettabilità dei redditi da essa derivanti non solo ai fini Irpef, ma anche Irap e Iva, “quando sia autonomamente svolta dal prestatore, con carattere di abitualità: seppur contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come trasgressiva di condivise norme etiche che rifiutano il commercio per danaro del proprio corpo, l’attività predetta non costituisce reato, e consiste, appunto, in una prestazione di servizio verso corrispettivo, inquadrabile nell’ampia previsione contenuta nel secondo periodo del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 1“. Nell’ordinanza n. 18030/2013, inoltre, la Corte di Cassazione ha ricordato come “i comuni principi in tema di accertamento dei redditi attraverso i dati bancari si applicano anche quando il reddito da assoggettare a tassazione costituisca provento di fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo e che, in coerenza, il reddito derivante dall’esercizio della prostituzione, in base al generale principio della tassabilità dei redditi per il fatto stesso della loro sussistenza, introdotto dall’art. 36 comma 34-bis del DL n. 223/2006, è sussumibile sotto l’art. 6 lett. f) del Tuir e soggetto ad imposizione diretta“.
Com’è noto, l’art. 6 c. 1 TUIR enumera le categorie entro cui classificare i redditi in: a) redditi fondiari; b) redditi di capitale; c) redditi di lavoro dipendente; d) redditi di lavoro autonomo; e) redditi di impresa; f) redditi diversi. Tale disposizione deve essere letta in combinato disposto con l’art. 14 c. 4 della L. n. 537/1993 – che ricomprende nelle predette categorie “i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale” se in essi classificabili, e impone di determinare i relativi redditi secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria – e l’art. 36 c. 34-bis della L. n. 248/2006 che ritiene tali proventi illeciti “redditi diversi” ancorché non classificabili nelle predette categorie. Curioso è notare come, tanto per coloro che ritengono i redditi da prostituzione proventi civilisticamente illeciti per contrarietà al buon costume, quanto per coloro di contrario avviso, la tassazione del meretricio sia comunque ammessa, vuoi a titolo di redditi da lavoro autonomo, in caso di attività abituale, vuoi a titolo di redditi diversi, sempre che l’attività di prostituzione sia volontaria (per redditi derivanti da sfruttamento della prostituzione, trattandosi di fattispecie penalmente rilevante, è sempre prevista tassazione in assenza di provvedimenti ablativi).
Per escluderne la tassazione, si è tentato da più parti di sostenere che i proventi derivanti dall’attività di prostituzione siano somme conseguite a titolo di risarcimento del danno provocato dalla lesione della dignità della persona di chi eserciti il meretricio, secondo un risalente filone inaugurato dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza n. 4927/1986, nella quale la Cassazione si era così espressa: “la prostituzione è attività contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come violatrice di quella morale corrente che rifiuta, sulla scorta delle norme etiche che rappresentano il patrimonio della civiltà attuale, il commercio per danaro che una donna faccia del proprio corpo […] il guadagno conseguito dalla prostituta a seguito della sua attività non può considerarsi reddito derivante da lavoro autonomo o dipendente […] piuttosto, è una forma di risarcimento del danno sui generis a causa della lesione della integrità della dignità di chi subisce l’affronto della vendita di sé” (conf. Cass. n. 19078/2005, 15984/2002, 13180/2000). Si tratta, in particolare, dell’impostazione recentemente seguita da una contribuente destinataria di un avviso di accertamento in considerazione dell’incremento patrimoniale rappresentato dall’acquisto di beni immobili durante periodi di imposta in cui non aveva presentato alcuna dichiarazione dei redditi. La donna, più precisamente, affermava la non tassabilità dei proventi derivanti dall’attività di prostituzione (ex art. 6 TUIR) quali proventi da risarcimento del danno, al contempo rilevava l’impossibilità di provare il minor reddito percepito rispetto a quello accertato data la mancata tenuta di contabilità, con conseguente violazione delle norme costituzionali e, infine, invocava l’illegittimità delle sanzioni per omessa dichiarazione, in mancanza di specifica disposizione che preveda un regime fiscale per l’attività di prostituzione. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha perso la propria occasione di pronunciarsi con chiarezza sul punto dichiarando il ricorso inammissibile per ragioni meramente formali (cfr. Cass. civ. n. 7206/2016).
Le proposte per il futuro
Solo a voler considerare gli ultimi tre anni, sono stati quasi una ventina i disegni di legge tesi a regolamentare la prostituzione. Da ultimo, la proposta di legge n. 3890 a firma della deputata Bini, presentata alla Camera in questi giorni, contiene una modifica all’art. 3 della L. n. 75/1958, cd. legge Merlin, volta ad introdurre nell’ordinamento una nuova fattispecie penale, quella dell’acquisto di servizi sessuali, che prevede per chi si avvale delle prestazioni sessuali di soggetti che esercitano la prostituzione una multa da 2.500 a 10.000 euro, salvo che la condotta non costituisca più grave reato, e, in caso di reiterazione, la reclusione fino a un anno e la multa da 2.500 a 10.000 euro, ferma la possibilità di sostituire la pena con quella del lavoro di pubblica utilità su richiesta del condannato.
Tale proposta si ispira al cd. modello nordico, vigente in Svezia, Norvegia, Islanda e Irlanda del Nord, che punisce il cliente e non già l’esercente il meretricio sul presupposto che tale attività costituisca sempre ipotesi di violenza dell’uomo nei confronti della donna; invero, secondo quanto espresso nella relazione che la accompagna, “il cliente […] con la sua domanda di prestazioni sessuali a pagamento, partecipa allo sfruttamento e alla violazione della dignità della persona ridotta a merce“.
Il medesimo modello, peraltro, si pone in linea con la proposta di risoluzione del Parlamento europeo 2013/2013 (INI) su sfruttamento sessuale e prostituzione e sulle loro conseguenze per la parità di genere, formulata dalla Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere, la quale al punto n. 32 “ritiene che il modo più efficace per combattere la tratta di donne e ragazze minorenni a fini di sfruttamento sessuale e per rafforzare la parità di genere segua ilmodello attuato in Svezia, Islanda e Norvegia (il cosiddetto modello nordico), e attualmente in corso di esame in diversi paesi europei, dove il reato è costituito dall’acquisto di servizi sessuali e non dai servizi resi da chi si prostituisce“.
Una siffatta proposta di legge, pertanto, si rifà ad un modello cd. neo-proibizionista nei confronti della prostituzione, che punendo l’acquisto ma non la vendita di prestazioni sessuali non ne regolamenta in alcun modo l’esercizio sulla scorta che “nei Paesi in cui la prostituzione è regolamentata, il numero di prostitute pro capite è maggiore rispetto agli altri Paesi. Numerosi studi internazionali dimostrano che la legalizzazione porta a un aumento della domanda e dunque a un aumento della prostituzione. Si è visto, infatti, che la legalizzazione è associata a una cultura in cui la prostituzione e la coercizione sessuale sono considerate normali, in cui il corpo delle donne viene mercificato. Gli studi dimostrano anche che un aumento della domanda di prostituzione comporta un aumento della tratta internazionale di donne e di minori stranieri. Inoltre, si è constatato che tale regolamentazione non ha portato alle entrate fiscali sperate: da un lato perché le persone non vogliono essere associate alla prostituzione, per cui non pagano le tasse, dall’altro perché, anche laddove è regolamentato, il fenomeno della prostituzione rimane in gran parte gestito dallacriminalità organizzata, la quale evade le tasse.
vivicentro.it/l’esperto –  StudioCataldi / Prostituzione e tasse facciamo chiarezza. (Avv. Laura Bazzan)

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