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Castellammare di Stabia

La preside antidroga che non rinuncia a educare LUIGI LA SPINA*

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I

l fatto. Rapido riassunto di quanto raccontato dalla cronaca cittadina della «Stampa». All’istituto alberghiero Colombatto, la preside, Claudia Torta, chiama i carabinieri perchè si accorge che nella sua scuola si consuma e si spaccia droga. 

Do po mesi di indagini, 5 allievi vengono accusati di essere coinvolti nel criminoso traffico. Ma la preside non li punisce sospendendoli dalle lezioni, perché «la scuola ha il compito di formare, non di sanzionare. Hanno sbagliato, ma noi abbiamo il dovere di educarli, perché non perdano di vista il loro futuro». 

La notizia. Perché questo fatto è diventato una notizia che il nostro giornale ha doverosamente pubblicato? Come prescrivono tutti i manuali di giornalismo, perché un fatto divenga una notizia occorre che sfugga alla normalità, diventi una eccezione significativa rispetto alle abitudini a cui siamo avvezzi. Ebbene, nella nostra Italia d’oggi, il comportamento di quella preside rappresenta proprio un’eccezione. «Fare solo il proprio dovere», come ha commentato l’episodio Claudia Torta, in circostanze simili vuol dire sfuggire a quella viltà omertosa che induce molti professori a girare la testa dall’altra parte. Con le due solite pretestuose giustificazioni: rischiamo di infangare il buon nome della scuola e non vogliamo «tradire» i nostri studenti. Senza capire, o facendo finta di non capire, che l’«onore» della scuola si salva solo se si dimostra di voler salvare il futuro dei ragazzi che sono affidati a loro proprio per non vederlo perduto in quelle aule e che, non denunciando i colpevoli, non solo tradiscono loro e le loro famiglie, ma tradiscono pure tutti i compagni e la comunità scolastica della quale fanno parte.  

Insieme alla testimonianza, alquanto rara, di aver compreso appieno la responsabilità di non sfuggire ai doveri del proprio ruolo, con una denuncia certamente coraggiosa, c’è, da parte di Claudia Torta, la dimostrazione, altrettanto coraggiosa, di una scelta che rischia di raddoppiare le critiche nei suoi confronti: quella di non aggiungere alle sanzioni che arriveranno dalla magistratura, una inutile e controproducente punizione scolastica. Proprio perché non si interrompa il processo di educazione formativa di cui, evidentemente, quei ragazzi hanno urgente e importante bisogno. Di sicuro, più bisogno dei compagni che resterebbero in classe senza di loro. 

Il caso della denuncia ai carabinieri della preside dell’istituto alberghiero torinese tocca un punto dolente del costume nazionale, la diffusissima fuga degli italiani dalla responsabilità individuale nei confronti dello Stato, delle istituzioni locali, comunque della collettività nella quale vivono. È una questione che, in maniera piuttosto insolita per le consuetudini quirinalizie, sollevò il Presidente della Repubblica nel suo primo messaggio augurale di fine anno. Mattarella, infatti, con un orientamento non da tutti rilevato, spostò l’obbiettivo fondamentale di quel discorso dai doveri della classe politica proprio ai doveri di responsabilità individuale dei cittadini. Persino utilizzando, per una maggiore efficacia, riferimenti di domestica consuetudine, quando fece accenno al contributo di tutti per la tutela dell’ambiente attraverso la raccolta differenziata dei rifiuti. 

In un’Italia in cui la tutela dei diritti, passati, presenti e futuri, diventa non una comprensibile preoccupazione di tutela personale, ma una ossessiva rivendicazione collettiva che prescinde sempre da qualsiasi compatibilità economica e sociale, l’accento presidenziale sui doveri di una individuale responsabilità civile avrebbe dovuto, in effetti, suscitare una riflessione autocritica, generale e profonda, invece di essere sostanzialmente ignorato come un utopistico e velleitario appello. Quello che, nella civiltà anglosassone, è considerato un compito essenziale di un buon cittadino, la collaborazione con le forze dell’ordine per la tutela dei principi fondamentali della società in cui si è inseriti, da noi è considerato come l’atto riprovevole di uno «spione», perché la complicità, di oggi, a favore di un vicino può essere ripagata, domani, con altrettanta complicità del vicino. Una catena di omertà che si avvale dello comodo slogan «non è il mio compito», per sfuggire al coraggio di rivendicare, invece, proprio il compito di una responsabilità fondamentale del cittadino inuna comunità democratica. 

La famosa frase di John Kennedy «non chiederti che cosa il tuo Paese può fare per te, ma ciò che tu puoi fare per il tuo Paese» suscitò l’entusiastico consenso degli americani. Da noi, se mai un presidente azzardasse di ripeterla, sarebbe accolta da uno stupore pubblico e da un cachinno privato.  

*lastampa

 
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