L
a sorpresa non è arrivata dall’esito del primo turno per le amministrative di domenica, perché, questa volta, i sondaggi ci hanno sostanzialmente azzeccato.
La sorpresa, e la delusione, è venuta dalle interpretazioni della nostra classe politica e dirigente sui risultati del voto, sintomo quanto mai significativo di quel preoccupante distacco dalla realtà delle cosiddette «élite» del Paese, pervicacemente ostinate a guardare con gli occhiali del Novecento le tumultuose trasformazioni sociali di questo inizio del nuovo secolo.
Perché stupirsi ancora che, sul consueto asse destra – sinistra del panorama politico italiano gli schieramenti sociali si siano, da tempo, rivoluzionati, non più nel binomio conservatori-progressisti, ma in quello integrati-esclusi? Con l’ovvia inversione delle tendenze elettorali nei quartieri delle nostre città .
Perché ritenere che abbia ancora validità la tradizionale divisione socio-politica tra lavoratori dipendenti che votano a sinistra e autonomi che scelgono la destra, quando gli effetti della globalizzazione dell’economia e della finanza li hanno accomunati in un nuovo tipo di proletariato, precario e sfiduciato?
Perché non accorgersi che l’improvvisa mobilità elettorale degli italiani, dopo decenni di assoluta impermeabilità tra gli schieramenti, è il segnale di una disperata, frammentata e occasionale domanda politica che non trova mai una offerta, adeguata alle necessità concrete e convincente nella promessa di soddisfarle?
Ecco perché, a sinistra, si immagina nostalgicamente che sia ancora possibile ricostruire una alleanza politica che rifletta quella soluzione, chiamiamola socialdemocratica o laburista, che non ha più una base sociale di riferimento. Come, peraltro, dimostrano le convulsioni culturali e politiche persino dei Paesi scandinavi, esempi classici di tale modello, davanti alle sconvolgenti novità sia dei fenomeni migratori, sia di quelli finanziari di questi tempi. Così, a destra, si invoca, altrettanto nostalgicamente, la ricomposizione di un centro cosiddetto «moderato», in caccia di quegli elettori che sono diventati tutt’altro che «moderati», perchè spinti, dalla devastante crisi del ceto medio, alle estremità più radicali dello schieramento partitico.
La prigione mentale di schemi interpretativi obsoleti, paradossalmente, induce anche coloro che avvertono l’impossibilità di perpetuare ipotesi di soluzione di nuovi problemi con antiche ricette a proporre rimedi insufficienti o illusori. Se è vero, ad esempio, che le novità tecnologiche riducono pesantemente il mercato degli attuali lavori, ricorrere al cosiddetto «reddito di cittadinanza» come innovativa soluzione all’impossibilità di garantire il sistema tradizionale di welfare costituisce un sostegno, per di più senza speranze, alla sopravvivenza di tanti giovani e meno giovani e non l’offerta di occasioni per un progetto di vita o di «nuova vita».
Alle difficoltà italiane, del resto molto simili a quelle di quasi tutte le società occidentali, purtroppo non esistono rimedi con efficacia immediata, proprio perché i mutamenti sociali, economici, culturali avvenuti dall’inizio del secolo sono stati troppo rapidi per la comprensione delle conseguenze da parte di classi dirigenti arroccate nel privilegio di non doverle subire. Ma il loro isolamento dalla realtà produce, per limitarci alle cronache di queste ore, effetti grotteschi, come gli appelli dei leader politici agli elettori perché, al ballottaggio, seguano le loro indicazioni, quando è ormai chiaro che i cittadini le ignorano e decidono solo con la propria testa. Quei partiti che i presunti capi-partito pensano di guidare, infatti, non esistono più da parecchi anni, trasformati, nei casi migliori, in comitati elettorali a seguito di un più o meno improvvisato leader e, nei casi peggiori, in clan personali e affaristici di potentati locali. O come le volenterose e improbabili trasposizioni del voto di domenica su quello del 19 giugno e, nella foga profetica, i calcoli sulle prossime scadenze elettorali o referendarie alla luce di risultati che hanno, nelle variabili locali, indecifrabili significati nazionali.
Meglio sarebbe, alleggeriti dai pur rispettabilissimi fardelli dei libri di Adamo Smith o di Carlo Marx , andare, con liberatoria curiosità , alla scoperta di tanti fenomeni nuovi che hanno cambiato la nostra vita e, soprattutto, quella delle più giovani generazioni. Ci accorgeremmo, allora, che la scuola e l’università , una volta deputati ascensori della mobilità sociale, sono diventate, tranne qualche eccezione, istituzioni che perpetuano una feroce conservazione di classe nei destini dei loro studenti. O che il sistema di welfare familiare che negli anni passati consentiva, con il patrimonio dei risparmi accumulati dal lavoro di nonni e padri, di mantenere figli precari o disoccupati per lunghi anni, incomincia a franare. I minimi tassi di remunerazione di quei capitali, piccoli o meno piccoli che siano, non consentono più ai tesoretti depositati in banca dalle vecchie generazioni di far fronte alle necessità di un sostegno supplementare ai magri guadagni, quando ci sono, dei giovani d’oggi.
Ci accorgeremmo, forse, che la prossima rivoluzione non verrà dai poveri che troviamo all’aperto, agli angoli delle strade, ma da quelli che stanno al chiuso, dentro le loro case e si vergognano di esserlo diventati.
vivicentro.it/editoriale –  lastampa/La politica prigioniera di vecchi schemi LUIGI LA SPINA
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