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Il ridimensionamento della Merkel e il crollo verticale dei socialdemocratici tedeschi dimostrano che le grandi coalizioni comportano un prezzo troppo alto per chi vi partecipa e un vantaggio imprevedibile per chi vi si oppone”, scrive Marcello Sorgi, ragionando sulle possibili conseguenze in Italia dei movimenti politici registrati in Germania.
Voto tedesco e conseguenze italiane
Oltre a creare una serie di problemi complicati a Berlino e nel Bundestag, i risultati delle elezioni in Germania hanno avuto l’effetto di demolire, uno dopo l’altro, gli obiettivi per cui dichiaratamente o no, in vista del voto politico della prossima primavera, si stava lavorando anche in Italia. A cominciare dalla grande coalizione, per la quale, con approcci differenti, si muovevano Berlusconi e Renzi, e del sistema elettorale tedesco, affossato dai franchi tiratori alla Camera l’8 giugno, ma considerato un’ancora di salvezza, da riproporre in extremis nel caso del già annunciato fallimento del Rosatellum.
Il ridimensionamento della Merkel e il crollo verticale dei socialdemocratici tedeschi dimostrano infatti che le larghe alleanze comportano un prezzo troppo alto per chi vi partecipa e un vantaggio imprevedibile per chi vi si oppone, tanto maggiore quanto più forte e radicale è l’opposizione. Un processo del genere, del resto, si era manifestato anche in Italia, con il calo del Pd dall’ottimo risultato (40,8%) conseguito da Renzi nelle europee del 2014 alle più modeste affermazioni nelle regionali del 2015.
Finendo poi con le sconfitte vere e proprie nelle amministrative del 2016 e 2017 che, combinate con il disastro del referendum costituzionale, hanno portato il leader del partito a rinunciare alla guida del governo e a dover pagare la propria riconferma alla segreteria con una scissione, in grado di compromettere l’esito delle regionali siciliane del 5 novembre, senza dire, appunto, del decisivo appuntamento con le urne per il prossimo Parlamento. Parallelamente – ed è in qualche modo una conferma dell’esaurimento delle grandi coalizioni, o delle alleanze tra ex-avversari come Pd e Ap, l’ex-Nuovo centrodestra – Berlusconi, passando all’opposizione, seppure un’opposizione moderata, ha visto rifiorire il consenso intorno a sé.
Quanto al sistema elettorale tedesco, valutato come un toccasana per consentire anche all’Italia di uscire dalla stagione del bipolarismo, ormai superata con l’avvento di Grillo e del M5S, senza ricadere nella paralisi del proporzionalismo, le urne della Germania ci dicono che non è più così. Lo sbarramento al 5 per cento non ha impedito alla destra radicale, nazionalista e xenofoba (quando non nostalgica del nazismo), a cui i nostri Salvini e Meloni si richiamano apertamente, di eleggere un centinaio di parlamentari in grado di condizionare, sia il governo che le opposizioni; la sinistra-sinistra della Linke ha riottenuto il suo 10 per cento che farà sognare Pisapia, Bersani e il variegato arcobaleno che gli si muove attorno e in concorrenza; il ritorno dei liberali al Bundestag, dopo una legislatura in cui ne erano rimasti fuori, spinge verso il recupero delle identità e contro i compromessi delle alleanze a qualsiasi costo.
In sintesi, un quadro spezzettato e difficile da ricomporre, che impone, anche in Italia, un drastico ripensamento delle strategie. Diciamo la verità: l’idea di rimettere su le coalizioni, vista la crisi delle larghe alleanze, è abbastanza teorica, se non proprio fuori dalla realtà, al punto in cui sono ridotti i rapporti tra i leader che dovrebbero ricostruirle. Non si può escludere che ci si riprovi, o si faccia finta di riprovarci, per poi distruggerle, in vista non si sa di cosa, dopo il voto. Lo sanno bene quelli che dicono di volerle e quelli che non le escludono, ma sotto sotto le sabotano.
In casi come questi ci vorrebbe una novità. Ma veramente nuova, ai limiti dell’azzardo, un po’ com’era – e purtroppo non è più – il Renzi di quattro-cinque anni fa. Oppure ci vorrebbe qualcuno in grado di rompere i confini e le identità sclerotizzate delle attuali forze in campo, con un programma serio, concreto, realistico, di pochi punti sganciati da ipocrisie e inutili ancoraggi ideologici. Per intendersi, uno (o una) alla Macron. A guardarsi intorno, dalle nostre parti non è che se ne vedano tanti, e neppure pochi. Ma chi ci sta provando, prendendo di petto il problema dei problemi, l’immigrazione clandestina che sta terremotando le opinioni pubbliche e gli elettorati di tutto il mondo, c’è e si chiama Minniti. Non è detto che sia in grado di svolgere la seconda parte del lavoro, la più difficile: rompere gli schieramenti. Ma potrebbe esserne tentato. O sarà lui o uno che prenderà esempio da lui.
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