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l confronto è utile se il passato insegna a non ripetere gli errori. È inutile e persino dannoso se cancella le distinzioni per fini di propaganda. È il caso dell’attuale escalation di inchieste giudiziarie contro esponenti del Pd e del governo renziano, nazionali e locali, e l’epoca di Tangentopoli, quando 20 anni fa, la magistratura mise fine al sistema dei partiti che aveva diretto la politica italiana dal dopoguerra in poi.
Il paragone è certamente suggestivo per alcune somiglianze che evocano quei fatti, quelle parole, ma anche quel clima intossicato da un corrivo moralismo, da sospetti di un complotto dei giudici contro la classe politica al potere, dalle ipocrisie e dalle convenienze di chi sogna, a tanti anni di distanza, rivincite personali e rivalse partitiche. Non si è ancora arrivati alla gogna pubblica della foto in manette di Enzo Carra, ma la decisione di arrivare alla detenzione preventiva in carcere per il presunto «perturbatore di asta pubblica», Simone Uggetti, ha suscitato lo stesso clamore di polemiche e accuse.
Il dubbio è il medesimo: la democrazia si difende con le manette o la manette sono uno strumento per alterare le regole della democrazia?
Anche la reazione dei politici sembra la stessa. In pubblico, rispettosi inviti perché la magistratura possa liberamente esercitare le sue funzioni di controllo della legalità . In privato, le confidenze sull’ipotesi di un assedio, su un’operazione mirata alla cacciata di Renzi dal governo e dalla segreteria Pd per via giudiziaria, su un tentativo di influenzare pesantemente le imminenti elezioni amministrative, ma soprattutto la prova decisiva per il premier, il referendum sulla riforma costituzionale.
Pure l’atteggiamento di alcuni giudici sembra rievocare quel clima di furore moralistico che consentì la clamorosa bocciatura del decreto Conso attraverso l’inconsueto «pronunciamento» del pool di «Mani pulite», a televisioni unite. Come quando si scrive dai magistrati di Lodi, con un curioso pronostico di futura sentenza, che non ci possano essere attenuanti a quel reato o che la personalità degli imputati sia tale da ritenere «che abbiano potuto sistematicamente gestire la cosa pubblica con modalità illecite». Una presunzione di colpevolezza che ribalta la garanzia, invece, di quella presunzione d’innocenza che la Costituzione assegna a ogni imputato. Soprattutto il giudizio, veramente avventato perché generalizza una condizione professionale, quella di politico e di avvocato, per la quale non si applicano i principi di una democrazia liberale, quando sostengono che gli arresti domiciliari rendano impossibile il controllo di indagati di tal genere.
Eppure, le differenze ci sono e le distinzioni sono importanti, sia se vogliamo capire che cosa davvero stia succedendo e sia, soprattutto, per non ricalcare una strada di risanamento democratico e morale evidentemente sbagliata, visto che la corruzione politica in Italia, da quei tempi, non solo non è diminuita, ma appare dilagante dal centro del potere dei partiti ai più modesti e personali interessi degli amministratori locali in tutto il territorio nazionale.
Oggi, fortunatamente, non possiamo più credere in un ingenuo manicheismo, qualche volta meno ingenuo perché sfruttato cinicamente, per cui davanti a una classe politica corrotta si erga una società civile onesta e vittima dell’arroganza del potere. Perché i confini, come si è visto, tra corrotti e complici dei corrotti si sono mischiati, tra pubblico e privato, tra ossessiva e spregiudicata ricerca del consenso da parte dei politici e affari di lobby potenti al punto tale, in alcuni casi, da soggiogare e intimidire burocrazie e ministri. Ma anche i magistrati non appaiono più i vendicatori intemerati di cittadini indignati e sconcertati. I sospetti di una gara delle procure all’emulazione mediatica e, magari, carrieristica dell’indagine clamorosa, emulazione venata da una mal dissimulata faziosità e, qualche volta, da uno scarsa competenza professionale, non paiono più solo comodi alibi di ignobili malfattori, ma si diffondono anche in ampi settori dell’opinione pubblica.
Sono cadute, oggi, tutte le presunzioni di una onestà garantita dal marchio di fabbrica di un partito, di una categoria professionale, di una appartenenza geografica o sociale. È il Pd, per primo, a pagare, con una nemesi ultraventennale, le boriose distinzioni che lo volevano immune, per un supposto Dna più democratico di altri, dalle tentazioni del potere, così imprudentemente esibite all’epoca di «Mani pulite». E altrettanta imprudenza potrebbe dimostrare l’erede di oggi all’opposizione di chi governa, «il Movimento cinque stelle». Sono cadute anche le illusioni sul potere rigenerante dei magistrati che cambiano mestiere e diventano politici, meteore, a cominciare dal caso più famoso, quello di Di Pietro, destinate a una popolarità effimera e irriconoscente.
Solo oggi, forse, possiamo capire l’errore più grande commesso dai protagonisti di quell’epoca: l’abbandono del loro ruolo. La politica si arrese non credendo più alla possibilità di esercitare, nel clima di allora, una funzione che sembrava aver perso ogni credibilità . La magistratura si illuse di poter supplire a un potere screditato e corrotto. Il risultato, a quasi 30 anni di distanza, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti, con una drammatica perdita collettiva di fiducia popolare nei confronti di entrambe le istituzioni.
Alla politica spetta il compito di varare, in tempi brevi, quella troppo annunciata riforma dei procedimenti penali basata su un deciso «scambio dei tempi»: un allungamento della prescrizione, per evitare la sostanziale impunità dei corrotti, in cambio di una forte riduzione delle infinite tappe di una indagine e, soprattutto, di un processo. Alla magistratura quello di rivendicare l’indipendenza nei confronti del potere politico attraverso un rigoroso rispetto dei limiti della sua azione, quella dell’accertamento e della repressione dei reati e non quella caratterizzata da generalizzate censure moralistiche.
vivicentro.it-editoriale / La democrazia non si salva con le manette LUIGI LA SPINA
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