I
primi decreti sulla pubblica amministrazione sono positivi e importanti. E di portata storica, dato che la materia è oggetto di tentativi di riforma da più di vent’anni. Si discuterà molto sul licenziamento in tronco dei dipendenti assenteisti, che rischia di oscurare altri punti di minore impatto mediatico, ma davvero cruciali per la nostra economia: le procedure di semplificazione per la realizzazione delle grandi opere e degli investimenti produttivi, con la creazione di un solo ufficio per il rilascio dell’autorizzazione e lo snellimento delle conferenze dei servizi; le norme sulla trasparenza e il diritto alla conoscenza, che oltre a migliorare la performance delle amministrazioni servono a rinsaldare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Su questi aspetti i decreti non hanno tradito l’impostazione originaria della riforma, come speriamo non lo facciano gli altri tasselli di quest’ampio progetto che devono ancora arrivare: quelli, ugualmente fondamentali, sulla dirigenza unificata (Stato, regioni, enti locali) e sulla Scuola di amministrazione.
Per capire l’importanza di tutto ciò, occorre partire da un dato incontrovertibile: il declino dell’Italia.
È un declino che dura da almeno quindici anni, con radici che affondano nelle politiche degli Anni Settanta e Ottanta. E bisogna aggiungere che la ripresa, in corso ma incerta, non esclude affatto il declino: si torna a crescere, ma a tassi inferiori alla media Ocse. Perché avviene questo? Perché il Belpaese è rimasto indietro nelle condizioni fondamentali dello sviluppo. Fra queste, centrale è l’efficienza delle istituzioni e, in particolare, del sistema amministrativo: determina modalità e costi di realizzazione delle grandi opere (ne discende quindi la carente dotazione infrastrutturale del nostro Paese); incide sull’efficacia dei controlli e per questa via, ad esempio, anche sulla performance del sistema bancario, motivo di così forte preoccupazione in questi giorni; include il funzionamento della giustizia civile e penale, che vede da noi tempi doppi o tripli rispetto a tutti gli altri Paesi avanzati (a parità di spesa), tempi che scoraggiano gli investimenti internazionali e incentivano illegalità e malaffare; si riflette per questi e altri canali nei livelli di corruzione, percepiti e reali, che accomunano l’Italia ai Paesi sottosviluppati.
A questa situazione negli ultimi vent’anni non si è messo mano essenzialmente per responsabilità della politica (lo stesso motivo per cui siamo finiti ultimi anche nei diritti civili). Ora però bisogna riconoscere a Renzi grande attivismo: una riforma istituzionale senza precedenti nella storia della Repubblica (pur se tutt’altro che perfetta), che renderà meno farraginosa l’azione di governo, e queste nuove norme sulla pubblica amministrazione. Entrambi sono interventi di lungo respiro: incidono poco sulla crescita di questi mesi, molto su quella futura. Pongono le condizioni per evitare il declino.
A tale scopo, vi è però un’altra area in cui urge operare. È il sistema di istruzione e ricerca, dove pure tutte le statistiche ci inchiodano agli ultimi posti fra i Paesi avanzati. Qui va detto che la Buona scuola di Renzi, pur tornando ad aumentare finalmente le risorse, non ha sortito gli effetti sperati (nemmeno in termini di consenso). Il principale problema è il divario Nord-Sud, un divario esteso dagli asili all’università e che la maggiore autonomia di questi anni tende ad aumentare, anziché ridurre: in un contesto fortemente deteriorato quale è il Mezzogiorno, la discrezionalità si rivela controproducente, perché concede più potere alle élite clientelari e le rinsalda nei loro fortini – ed è una costante di tutta la storia d’Italia. Occorre pensare a come porvi rimedio, garantendo adeguate risorse ma sulla base di criteri nazionali (e internazionali, per le università); cioè una strada molto diversa da quella seguita finora. E inoltre bisogna potenziare la cultura scientifica. Vincere questa sfida significa dare all’Italia la seconda gamba su cui ripartire.
*lastampa
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