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Castellammare di Stabia

L’Europa è a pezzi e l’Italia è tagliata a fettuccine. EUGENIO SCALFARI *

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Cominciamo dall’Europa: è completamente a pezzi.

span style="color: #252525; font-family: Arial, 'Helvetica Neue', Helvetica, sans-serif; font-size: 16px; line-height: 23px;">In Germania la Cancelliera 

Angela Merkel ha compiuto un errore dietro l’altro. Il primo sembrò – e probabilmente lo era – un atto che restituiva all’Europa la sua dignità di presidio della civiltà occidentale: aprì la porta ai rifugiati che fuggivano dalla guerra in Siria, dalla morte, dalla fame, dalla schiavitù. Un milione di immigrati arrivò in terra tedesca trovandovi sostegno e – almeno in parte – anche lavoro. Ma quella pacifica invasione non piacque affatto agli alleati bavaresi della Cdu, il partito della Cancelliera. La destra tedesca si manifestò contro la Merkel anche in Parlamento. Gran parte del ceto medio si schierò contro di lei ad un anno e mezzo dalle prossime elezioni politiche.

Per evitare il peggio la Merkel bloccò – temporaneamente – ogni ulteriore ingresso di immigrati e proclamò che avrebbe espulso tutti quelli che non avessero rispettato le leggi vigenti. Ma, come se tutto ciò non bastasse, ci furono le turpi notti di Colonia e di Amburgo, l’assalto di centinaia di facinorosi alle donne che passeggiavano nel pieno centro della città, a Colonia specialmente tra il duomo e la stazione ferroviaria centrale. Palpeggiamenti lubrichi, borseggio, stupri, con la polizia incapace di fronteggiare un episodio che dir turpe è dir poco. La Merkel in questo momento si trova nel punto più basso della sua popolarità, con ripercussioni inevitabili nei confronti delle Autorità di Bruxelles. Tutto ciò non fa che stimolare l’autonomia dei singoli Paesi membri dell’Ue con le conseguenze che questa situazione comporta.

Nel frattempo altri Paesi, per bilanciare il flusso inevitabile di immigranti, hanno eretto muraglie di cemento e di filo spinato nonché le polizie di frontiera e addirittura l’esercito: la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Romania, la Slovenia, la Danimarca, la Svezia e perfino la Francia. Il trattato di Schengen che aveva abolito i confini interni tra le Nazioni europee, di fatto non esiste più anche se Bruxelles proclama che è tuttora pienamente valido ma soltanto temporaneamente sospeso. Parole. Allo stato dei fatti non lo è, ma se l’ipotesi della sua piena ripresa non avrà luogo entro i prossimi tre o quattro mesi, l’Europa come Unione non esisterà più proprio nel momento in cui la buona stagione farà riprendere massicciamente i viaggi per mare. L’emigrazione, come più volte ha detto papa Francesco, non si fermerà, perché nella società globale tutto si muove a cominciare da interi popoli. Dalla fame e dalla schiavitù, gli individui, le famiglie e popoli interi vanno verso il benessere. Durerà almeno cinquant’anni questo fenomeno e nessuno potrà fermarlo. Ma il primo effetto non è quello dell’accoglienza, ma del respingimento, sicché la politica si sta spostando: emerge l’indifferenza e nel contempo reggono partiti e movimenti di destra con tutto quel che ne segue.

Immigrazione a parte, la Spagna non è riuscita a formare un governo dopo le elezioni e voterà di nuovo nei prossimi mesi. Portogallo e Irlanda si trovano in pessime acque. La Grecia è in grave difficoltà.

Questo è il panorama. Dire che è pessimo è ancora dir poco. E l’Italia?

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Di fronte al peggio degli altri Paesi sembra a molti che l’Italia sia il meglio. Per certi aspetti è vero, per altri no.

È certamente meglio per quanto riguarda la flessibilità economica perché con un’Europa che è ormai incapace di esistere politicamente e soltanto con una burocrazia abbandonata da ogni lato a se stessa, l’Italia da sola decide ciò che le sembra più opportuno: politica economica keynesiana, mance e mancette a fini elettorali, aumento di potere del premier che marcia ormai con passo veloce e sicuro verso l’istituzione costituzionale di una premiership che è da sempre il suo obiettivo.

L’Italia è uscita da tempo dalla recessione, ma negli ultimi mesi sembra aver imboccato la crescita economica, sia pure a lenti passi e ancora con grande fragilità. Questa crescita tuttavia è in parte figurativa. La diminuzione della disoccupazione e l’aumento dell’occupazione riguardano la prima lavoro precario, la seconda lavoro a tempo indeterminato con un costo di decontribuzione notevole e comunque determinata dall’aumento di consumi e degli investimenti. I consumi qualche ampliamento l’hanno avuto, gli investimenti ancora no.

Tutto ciò avviene comunque in presenza di un debito pubblico che è tra i più alti del mondo e non accenna a diminuire se non nelle previsioni che da due anni ci assicurano del loro avverarsi entro tre mesi. Prevedere è facile ma due anni sono comunque passati e quei tre mesi non li abbiamo visti. I guai per l’Italia non sono solo questi; ci sono le banche, c’è una premiership faccendiera, c’è un Parlamento svuotato d’ogni potere, c’è alle viste un referendum costituzionale che quanto di peggio si possa concepire, c’è l’evasione e la corruzione che il presidente Mattarella ha stigmatizzato nel messaggio di fine anno come un elemento peggiore e largamente diffuso. E poi c’è la Libia, dove abbiamo rivendicato il nostro ruolo di protagonista che ci è stato riconosciuto dall’Europa e dalle Nazioni Unite, ma che almeno finora non siamo stati assolutamente in grado di attuare mentre il Califfato e i suoi uomini, valutati in circa diecimila, assaltano particolarmente la Tunisia, il governo di Tobruk, quello di Tripoli, l’oleodotto di petrolio e di gas e alimentano il traffico degli scafisti. Insomma, si sono ormai militarmente insediati di fronte all’Italia mentre noi continuiamo ad offrire alla diplomazia il nostro ormai risibile protagonismo in politica estera.

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Le banche, specialmente quelle popolari e locali, non sono certo una cosetta da poco. I crediti in sofferenza hanno ormai toccato per l’intero sistema italiano oltre i 300 miliardi e poiché una cifra simile assai difficilmente può essere ceduta ad un’impresa di recuperi, deve essere ripianata con aumenti di capitali, diminuzione di personale, concentrazioni di agenzie e soprattutto acquisto di titoli pubblici. Con quale danaro? Con il Qe della Banca centrale, restringendo l’erogazione di crediti alla clientela. È vero che Draghi vincola almeno una parte della liquidità che fornisce alle banche a prestiti alla clientela, ma quest’ultima è ancora intorpidita e quando non lo è le banche violano l’impegno assunto con la Bce, specie quelle locali e popolari di piccole dimensioni.

Le quattro banche popolari in stato di completo dissesto sono state ispezionate dalla Banca d’Italia, con speciale attenzione alla Banca Etruria che è la principale tra loro. Le ispezioni sono iniziate nel 2013 e sono continuate fino alla fine del 2014. A quel punto la Banca d’Italia ha formulato vere e proprie “incolpazioni” ai dirigenti, la Procura di Arezzo ha aperto un’inchiesta ed ha mobilitato la Guardia di Finanza. L’insieme di questi documenti è stato reso pubblico. Il governo dal canto suo, col provvedimento sulla “Buona Banca”, ha costituito quattro nuove banche riunendo il dissesto in una “bad bank” o banca cattiva che dir si voglia, addossandone il peso a coloro che sono incappati in obbligazioni e investimenti quanto mai insicuri.

Dai documenti resi pubblici dalla Banca d’Italia e dalla Guardia di Finanza per quanto riguarda Banca Etruria, le incolpazioni riguardano l’ex presidente Lorenzo Rosi, i due vicepresidenti Alfredo Berni e Pierluigi Boschi, più molti componenti del consiglio d’amministrazione tra i quali il più incolpato dalla Procura è Luciano Nataloni. Tra le società citate in affari scorretti o addirittura colpevoli c’è soprattutto la Castelnuovese guidata da Rosi e altre con intrecci e partecipazioni variamente incrociati tra le quali la Nikita Invest che pare detenga il 41 per cento della Party srl, la cui maggioranza appartiene a Tiziano Renzi, padre del nostro presidente del Consiglio.

Questo è il panorama, in attesa del giudizio della Procura aretina. Speriamo sulla Buona Banca e negli arbitrati di necessario approfondimento affidati a Raffaele Cantone. Per noi, testimoni di quanto accade, non c’è che turarsi il naso.

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Debbo ora parlare di nuovo, come già feci domenica scorsa, del referendum costituzionale, detto correntemente confermativo, che Renzi ha deciso si svolga nel prossimo autunno. L’intera materia è disegnata dalla Costituzione negli articoli 75 e 138. Poiché su questo argomento si sono aperte vivaci polemiche, approfondiamo il tema che sembra a me di massima importanza.

L’articolo 75 dice: “È indetto referendum popolare per decidere l’abrogazione totale o parziale d’una legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta di referendum è approvata se ha partecipato alla sua votazione la maggioranza degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi” dunque per il referendum abrogativo ci vuole il quorum del 50,1 per cento degli aventi diritto.

I passi essenziali dell’articolo 138 sono i seguenti: “Le leggi sulla revisione della Costituzione sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi e sono approvati a maggioranza assoluta di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne faranno domanda un quinto dei membri d’una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge stessa è stata approvata da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”. Quest’ultima parte del 138 spiega chiaramente il motivo per il quale Renzi ha chiesto il referendum: non avrebbe mai raggiunto al Senato e forse neppure alla Camera la maggioranza dei due terzi, e quindi non c’era che fare ricorso ad un referendum confermativo che a differenza dell’abrogativo non ha alcun quorum da rispettare. Basta che partecipino qualche centinaia di migliaia su un elettorato di circa 40 milioni di cittadini, affinché sia valido. La mia ipotesi di solo tre persone votanti, da me formulata domenica scorsa, è ovviamente un’iperbole, ma se si verificasse, il referendum confermativo avrebbe il suo effetto.

La domanda sulla quale fervono le polemiche è dunque questa: perché la Costituzione non ha previsto un quorum? Per l’abrogazione sì, l’ha previsto, ma per una legge costituzionale che non abbia ottenuto i due terzi da entrambe le Camere no, non c’è quorum.

Dicono i sostenitori di questa procedura costituzionale che, non prevedendo alcun quorum, si dà voce e potere ad una minoranza e questo è un bene per la democrazia.

Detto così il concetto è giusto: si dà un potere ad una minoranza, quindi la democrazia è tutelata. Ma non è affatto così. Senza il quorum il potere si dà, in assenza d’una maggioranza assoluta, ad una maggioranza relativa. Cioè si dà un premio alla maggioranza delle minoranze così come avviene nella legge elettorale con il premio non a chi ha il 50 più 1 dei voti ma a chi ha il 40. Si premia una minoranza? No, si premia la maggioranza relativa e la si rende schiacciante visto che non poteva avere i due terzi del Parlamento.

Quindi il referendum confermativo dev’essere osteggiato da un contro referendum propositivo che chieda un quorum. Oppure la maggioranza senza quorum può dire no bocciando il confermativo.

Personalmente non credo che avverrà. Crescerà l’astensione, questo è probabile, ed avremo un Paese guidato da una premiership di minoranza. Coi tempi bui nei quali viviamo può essere una soluzione, ma non certo democratica e tanto meno di sinistra. Andranno a votare gli elettori abbienti e le clientele dei vari emirati. Anche su questi ci vorrebbe una vigilanza. Se vorrà assumerla la spettanza è di Sergio Mattarella che dovrà fischiare un fallo quando lo vede. Forse sarebbe bene che usasse una moviola, cioè la libera stampa quando documenta un qualcosa che metta in gioco i principi della Costituzione democratica e repubblicana.

*larepubblica

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