A Bruxelles tirano un sospiro di sollievo per il “flop” del referendum di Orban in Ungheria che è però necessariamente parziale. Nelle stesse ore la premier inglese Theresa May annuncia l’avvio delle procedure per la Brexit nella primavera 2017. “O l’Europa comincia a pensare seriamente a come rispondere a queste sfide, o si troverà presto più divisa di prima dopo aver perso un pezzo importante”, scrive l’editorialista de La Stampa, Stefano Stefanini.
Il doppio attacco a Bruxelles
I
eri la sfida all’Europa è venuta contemporaneamente dal caposaldo atlantico e dal cuore centroeuropeo. Il Regno Unito se ne va alla ricerca di un futuro globale. L’Ungheria rimane abbarbicata all’Unione Europea, ma cercava d’imporre proprie condizioni non comprendenti l’accettazione di migranti.
La sfida ungherese è solo mezzo mancata: non aver raggiunto il 50% di affluenza ma conteggiare il 95% di voti anti-immigrazione è un segnale preciso. Non a caso l’opposizione aveva raccomandato la diserzione dalle urne, non il voto pro-immigrazione. Orban esce sconfitto; come Putin, scopre anche che è più facile cullarsi in alti indici di popolarità che scuotere la pigrizia dell’elettorato. Il referendum fallito non farà però aprire le porte ungheresi all’immigrazione. Né quelle degli altri Paesi di Visegrad (o di altri).
I britannici si proiettano audacemente nel mondo e gli ungheresi si attaccano al provincialismo dell’uniformità centroeuropea. Direzioni opposte, ma entrambe all’insegna di una rivincita della sovranità nazionale.
L’Europa è stretta nella morsa, che la politica tradizionale non controlla, i Trattati non prevedevano, Bruxelles spesso non capisce e la frenesia referendaria alimenta. Una nuova scuola di leader, che forse ha in Theresa May l’ultima arrivata, cavalca l’onda. O l’Europa comincia a pensare seriamente a come rispondere – finora non l’ha fatto mettendo pezze all’immigrazione ed evadendo il tema di Brexit – o si troverà presto più divisa di prima dopo aver perso un pezzo importante.
L’Unione Europea ha molte frecce al suo arco. Lo sta dimostrando con la procedura eccezionale di ratifica anticipata dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. La ratifica europea non viola le sovranità nazionali, ma permette di aggiungere i Paesi Ue che hanno già ratificato (l’Italia non ancora, l’Ungheria sì) al quorum necessario (55% delle emissioni globali) per l’entrata in vigore dell’accordo. Con l’Ue a bordo il traguardo è praticamente raggiunto. È stato un rapido successo politico: il problema era sorto solo due settimane fa a margine dell’Assemblea Generale dell’Onu.
Per britannici, che hanno fortemente incoraggiato la ratifica Ue dell’accordo, e ungheresi la lezione è semplice. L’Unione non è inutile; ha un peso internazionale che Londra, da sola, non sfiora. Per Bruxelles la lezione è più sottile: concentrarsi dove più incisivo è il ruolo e maggiore il valore aggiunto del blocco anziché dei singoli Stati membri; rispettare le sfere nazionali, senza inutili rulli compressori. È tempo di riscoprire la «sussidarietà», come limite all’ingerenza regolamentare comunitaria dove non necessaria.
Brexit e resistenza ungherese all’immigrazione non sono sullo stesso piano. L’eurodivorzio è una svolta geopolitica radicale di cui il resto dell’Ue sembra non rendersi pienamente conto. È affiorato ieri nel discorso di Theresa May alla conferenza del Partito Conservatore a Birmingham. Il Primo Ministro ha tracciato una visione del Regno Unito potenza mondiale che si libera dei vincoli eurocentrici dell’Ue – con quanto realismo resta da vedere: alcune delle frasi potrebbero tranquillamente figurare nel discorso sullo stato dell’Unione del prossimo Presidente americano; in futuro, fuori Birmingham un po’ di senso delle proporzioni non le guasterà. Senza entrare nel merito di Brexit ha fatto capire che la riappropriazione nazionale, immigrazione inclusa, ha la precedenza su tutto, anche sul Mercato Unico. Ha fatto felice la platea conservatrice, molto meno gli ambienti economici e gli investitori stranieri.
May aveva esordito a Downing Street dicendo di voler fare di Brexit «un successo». Si può dubitare che ci riesca, ma il messaggio è galvanizzante. Bruxelles è ancora ferma sulle quattro (giuste) libertà del Mercato Unico, inclusa l’immigrazione. È tempo che anche i 27 comincino a pensare, se non a fare di Brexit un successo (non lo sarà per nessuno, Uk per primo, ma si possono limitare i danni), a cosa vogliono ottenere nel divorzio. In gioco sono gli interessi dell’Ue, non la punizione dei britannici. Henry Kissinger ha raccomandato di non trattarli come detenuti evasi di prigione. Evitiamo di fare dell’Ue una prigione: altri potrebbero voler scappare.
Quanto all’Ungheria e a Viktor Orban, non ci sono sospiri di sollievo da sprecare. Il 44% di affluenza alle urne lo indebolisce, ma non cambia quasi niente. L’immigrazione rimane pesantemente sul tappeto europeo. Le quote erano un espediente, non una soluzione. Sono inoperanti. Non ci sono risposte facili, ma due direzioni in cui muoversi sono chiare: l’Ue deve assumere la responsabilità del controllo degli arrivi, accoglienza e respingimenti, alleviando l’onere sui Paesi in prima linea, come l’Italia; occorre intervenire alla radice, sui Paesi di origine dei migranti economici in Africa e sulle crisi in Siria, Libia, Yemen – la lista è lunga.
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