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nche nel Sahel dell’Africa subsahariana l’Occidente si ritira e lascia quell’estesa area dall’Atlantico al Mar Rosso a gruppi terroristici
Le immagini che da qualche giorno scorrono sulle Tv di tutto il mondo mostrano in Afghanistan il ritorno al potere dopo vent’anni dei cosiddetti studenti coranici, i Talebani – un variegato gruppo fondamentalista sunnita, armato e oltremodo motivato dalla rispettiva religione, che nel Sud del paese si finanzia notoriamente soprattutto con la produzione di oppio (eroina) specialmente per gli occidentali grandi consumatori di droga – che dopo vent’anni ha ripreso il controllo di quei territori, quando meno della parte centro-sud Sud della nazione compresa la capitale Kabul, ripristinando l’Emirato Islamico, ovverosia un dominio assoluto dotato dell’autorità di impartire ogni ordini nonché capo militare. Si dovrà ora capire quale sarà la reazione dei vari gruppi avversi a nord dell’Afghanistan, quali ad esempio i Tagiki (un gruppo etnico originario dell’Asia centrale e diffuso in Tagikistan, Afghanistan, Uzbekistan, Iran, Pakistan e nella provincia dello Xinjiang in Cina, hanno una lingua propria indoeuropea-iraniana). Ma anche i Talebani sono a loro volta composti da più gruppi. L’Afghanistan pertanto potrebbe rischiare una nuova “guerra civile”.
L’AFGHANISTAN
Molto in sintesi: il ritiro degli Stati Uniti da quei luoghi dopo un ventennio di guerra – pressoché adesso rivelatasi inutile e oltremodo dispendiosa in termini umani ed economici, della quale hanno fatto parte gli alleati europei compresa l’Italia – ha di tutta evidenza dato spazio al ritorno governativo dei talebani. Con l’aggravante che sul campo sono stati istruiti militarmente e digitalmente nelle Forze di Polizia molti afghani ora passati con i Talebani e sono anche rimaste tante strutture militari e pure armi e mezzi (eloquente la foto degli elicotteri nuovi ritrovati dai fondamentalisti in un hangar). Di certo comunque ci sono in corso e di mezzo anche trasversali interessi geopolitici delle grandi superpotenze quali Russia e Cina. Di sicuro gli Usa avranno lasciato l’ Afghanistan poiché i loro interessi si sono spostati su altri fronti nel mondo – come il Pacifico e il Mar Cinese Meridionale solcato da alcune delle rotte marittime più trafficate al mondo, quindi grandi crocevia del commercio internazionale – insieme a Giappone, Inghilterra, Australia e Canada, aspetto che a sua volta smuove su altre sponde la Cina e la Russia, ma pure le medie potenze dell’area, nucleari ed economiche, come l’India, l’Iran, il Pakistan, o l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi.
Insomma ci si trova davanti ad uno scenario piuttosto complesso e ancora forse imprevedibile. A pagarne purtroppo come sempre le conseguenze è la popolazione civile cui parecchia parte è già fuggita negli Stati confinanti divenendo anche preda di organizzazioni criminali e trafficanti senza scrupoli di esseri umani. Ancora più oltremodo penalizzate saranno notoriamente le donne a partire dalla pubertà poiché ritenute dalla cultura integralista poco più che degli esseri subalterni che devono solo sfornare figli e accudire gli uomini e per questo non occorre neanche che sappiano leggere e scrivere.
IL SAHEL
Nel frattempo qualcosa di analogo all’Afghanistan si sta materializzando di fronte all’Europa mediterranea, nel Sahel (dall’arabo Sahil, “bordo del deserto”), una fascia di territorio dell’Africa subsahariana, estesa tra il deserto del Sahara a nord, la savana del Sudan a sud, l’oceano Atlantico a ovest e il Mar Rosso a est, che copre (da ovest a est) gli Stati della Gambia, Senegal, la parte sud della Mauritania, il centro del Mali, Burkina Faso, la parte sud dell’Algeria e del Niger, la parte nord della Nigeria e del Camerun, la parte centrale del Ciad, il sud del Sudan, il nord del Sud Sudan e l’Eritrea. Considerando la fascia saheliana si può stimare una superficie totale di circa 2,5 milioni di km² in cui vivrebbe una popolazione di circa 20 milioni di abitanti.
Nel Sahel operano numerosi gruppi terroristici, alcuni legati al sedicente “Stato Islamico”, per tutti la guerra è anche un affare economico. In poco tempo il terrorismo si è diffuso in modo capillare, andando a coprire le mancanze dei governi e dello “Stato”. Gravi le ripercussioni umanitarie, si calcola che quasi due milioni di persone si siano spostate compromettendo così il futuro di un’intera generazione di giovani, la vera forza di questi Paesi, e quello delle loro nazioni.
Un accordo di pace firmato in questi territori nel 2015 dal governo del Mali e dai gruppi ribelli aveva cessato temporaneamente le ostilità, ma non è mai stato attuato. Successivamente, i militanti si sono rapidamente raggruppati ed espansi. Ghali, il leader tuareg, nonché l’obiettivo più ricercato dalla Francia, ha unito diversi gruppi militanti, tra cui Katiba Macina e al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM), sotto la bandiera del Gruppo per il Sostegno dell’Islam e dei Musulmani (GSIM), il cui nome in arabo è Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin’.
Anche in questi territori del Sahel, di tutta evidenza, a pagarne le conseguenze è la popolazione civile e particolarmente le donne e i bambini quindi le varie nuove generazioni con poche prospettive di una vita civile e libera.
IL RITIRO
Ma sia in Mali che in Francia, l’operazione antijihadista nella regione è andata in modo sfavorevole, il che ha spinto la Francia a preannunciare un ritiro parziale delle truppe francesi. E a giugno di quest’anno il Presidente francese Emmanuel Macron ha comunicato il ritiro del contingente francese dal Sahel e la fine dell’operazione Barkhane (operazione anti-insurrezione in corso iniziata il 1° agosto 2014 guidata dall’esercito francese contro i gruppi islamisti nella regione africana del Sahel) che aveva un dispiegamento militare di circa 5.100 militari transalpini posti da 8 anni nel Sahel per contrastare l’insurrezione jihadista che colpisce soprattutto Niger, Malì, Ciad e Burkina Faso.
La motivazione del ritiro sarebbe ufficialmente negli elevati costi finanziari (oltre un miliardo di euro annuo) e dei 55 caduti tra le fila francesi. Inizialmente la Francia ha cercato di vincere la guerra con la forza, cercando di replicare la strategia statunitense in Iraq. L’anno scorso aveva inviato altre 600 truppe nella regione del Sahel sperando di liberare un percorso che avrebbe permesso alle forze locali di prendere il controllo. Ci sono stati alcuni punti luminosi – il capo di Al Qaeda in Nord Africa è stato ucciso – ma il prezzo è stato sanguinoso. L’anno scorso è stato il peggiore per le vittime civili dall’ingresso della Francia nel 2013, quasi 7.000 sono stati uccisi.
A ciò si aggiunga che i più grandi contingenti non francesi a Takuba (tradotto: sciabola, è la task force guidata dalla Francia nel Sahel e nel Sahara che supporta le forze armate della Repubblica del Mali, partecipata dai Governi di Belgio, Repubblica ceca, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Mali, Niger, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Svezia e Regno Unito) sono i soldati svedesi, estoni e cechi, tutti paesi che hanno pochi legami con il Sahel e la cui opinione pubblica è molto sensibile alle perdite. Il parlamento svedese ha approvato il dispiegamento solo fino alla fine di quest’anno.
La fine dell’operazione Barkhane, al pari del ritiro definitivo degli Usa e degli alleati e quindi della NATO dall’Afghanistan, costituisce un ulteriore successo per i movimenti jihadisti legati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico, nonché un tracollo non solo per la Francia, ma per tutta l’Europa. Basti pensare che a Ue, pur disponendo di oltre 1,5 milioni di militari professionisti, non è riuscita a metterne in campo neppure qualche migliaio per combattere al fianco dei francesi la minaccia jihadista, scoraggiando i governi locali ad aprire al dialogo con i jihadisti.
LE EVENTUALI CONSEGUENZE
Senza le truppe francesi, il Sahel potrebbe assomigliare a un’altra seconda Libia. La perdita d’influenza della Francia in questa regione dell’Africa, grande come l’intera Europa, lascia infatti ampi spazi di penetrazione economica e militare ai cinesi, ma soprattutto ai russi, graditi dai governi locali tra i quali molti vantano rapporti con Mosca che risalgono agli anni ’70 e ’80. Mentre gli USA sembrano confermare con il Presidente Jo Biden il declinante interesse per l’Africa già emerso con Donald Trump, il “buco” lasciato dai francesi potrebbe venire colmato in teoria anche da altri Paesi europei, Italia in testa, che molti in Africa vedono come un partner efficace e poco invadente.
L’Italia da alcuni anni aveva aumentato la presenza militare proprio nella fascia sub sahariana, con basi, piccoli contingenti militari e presenze navali schierati a titolo nazionale o all’interno di missioni europee in Niger, Malì, Gibuti, Somalia e nel Golfo di Guinea mentre accordi di cooperazione nel settore difesa e sicurezza sono stati sottoscritti anche con Mauritania e Burkina Faso. Ma il disimpegno della Francia espone a rischi anche questa poca presenza militare italiana in quelle zone.
In queste vaste zone dell’Africa sub-sahariana si aprono dunque scenari altrettanto imprevedibili, o per usare una frase per adesso in voga tra gli economisti sul futuro finanziario “percorsi sconosciuti”.
L’Europa e particolarmente l’Italia dovrebbero intanto preventivare seriamente l’eventuale arrivo da questi territori del Sahel di molti profughi sulle nostre coste (soprattutto in Sicilia e Calabria) e non farsi al solito trovare sopresi quindi impreparati e persino dissonanti tra i medesimi Stati della UE.
(le altre informazioni regionali le trovi anche su Vivicentro – Redazione Sicilia)
Ps:
Poiché ci si è visti criticare il termine “gruppi terroristici”, si precisa che – a prescindere dalle soggettive seppure legittime opinioni di ognuno – il termine utilizzato nell’Informazione di “gruppi terroristici” scaturisce dall’art. 270sexies del codice penale, introdotto dal legislatore del 2005 in adempimento degli obblighi europei, ed in particolare della Decisione quadro dell’Unione Europea, 2002/475/GAI. Secondo la Corte di Cassazione, sezione I, con la sentenza n. 1072/07, in virtù anche della Convenzione di New York del 1999, finalizzata a contrastare il finanziamento del terrorismo «deve applicarsi la normativa del diritto internazionale umanitario ovvero quella comune a seconda che i fatti siano compiuti da soggetti muniti della qualità di “combattenti” e siano destinati contro civili o contro persone non impegnate attivamente nelle ostilità». Applicando questo principio la Corte afferma così che gli attacchi compiuti da gruppi insorgenti che vengano realizzati nel contesto di un conflitto armato interno, anche se portati prevalentemente contro obbiettivi militari, possono comunque essere considerati come terroristici ove essi possano coinvolgere direttamente la popolazione civile, oppure comunque soggetti che non siano più direttamente coinvolti nelle ostilità.