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La politica estera ha bisogno di realismo e di lungimiranza: dell’uno per affrontare crisi e problemi contingenti, dell’altra per sapere dove vuole andare. Per l’Italia, il realismo si è affacciato ieri quando il ministro Gentiloni ha riconosciuto, per la prima volta, un «ruolo nella transizione» al generale libico Khalifa Haftar che dalla Cirenaica si oppone al governo di unità nazionale di Fayez al Sarraj.
La lungimiranza è il filo conduttore della prima Conferenza Ministeriale Italia-Africa che si terrà a Roma il 18 maggio con la partecipazione di 40 ministri africani.
La misurata apertura a Haftar è subordinata al suo riconoscimento del governo di unità nazionale; la Conferenza è da lungo programmata. La coincidenza è casuale, ma ne potrebbe scaturire l’avvio di una politica italiana per l’Africa. Sarebbe tempo. Le visite, sia degli ultimi Presidenti della Repubblica che del Capo del Governo, sono stimoli importanti ma, senza continuità di seguiti, restano sprazzi.
Perché l’Africa e perché adesso? L’Africa brulica di energie, di spirito imprenditoriale, di voglia di crescere e d’innovare. A lungo guardata esclusivamente o come destinataria di assistenza internazionale o come serbatoio di risorse naturali, promette il prossimo miracolo economico e sociale, motore di capacità produttive e meta d’investimenti, con mercati in espansione e col dinamismo della gioventù demografica. Il XXI secolo è il turno dell’Africa, pur afflitta da un calderone di perdurante povertà, guerre, cambiamenti climatici e potenziali emergenze sanitarie.
Il rovescio della medaglia è l’Africa fonte di minacce alla sicurezza e stabilità internazionale. Verso Nord, le correnti migratorie, i traffici d’ogni genere e le saldature terroristiche di Boko Haram con Isis. Le documenta, su queste pagine, il reportage di Domenico Quirico dal Ciad. Verso Sud, la penetrazione jihadista, ben oltre la fascia sahariana. Le propaggini del proselitismo wahhabita arrivano ormai fino in Congo: solo scuole e servizi sanitari e sociali per ora, ma non è dalle madrasse pakistane e afghane che è cominciato l’indottrinamento di tanti terroristi?
Nordafrica mediterraneo e Africa sub-sahariana si ricongiungono nell’instabilità. Il Sahara non fa più da barriera. E’ diventato in buona parte terra di nessuno, sottratta al controllo degli Stati che se lo dividono. Fino a soli nove anni fa vi passava la Parigi-Dakar. Chi lo rischierebbe oggi? Il rally ha ceduto il passo ai terroristi e ai trafficanti. In paraggi dove ci avventuravamo con tranquillità si viaggia oggi senza rete, a nostro rischio e pericolo.
Il Mediterraneo è confine e ponte verso questa nuova e magmatica Africa. L’Italia, in prima linea, deve pensare a una politica africana senza sempre aspettare l’imbeccata europea. Le crisi e minacce contingenti richiedono un approccio realistico, le potenzialità e il futuro del continente una visione strategica. Fra le emergenze è in testa la Libia. Non basta dire che deve rimanere unita. Se le spinte centrifughe, quali quelle del governo di Tobruk, non vengono imbrigliate, e se la comunità internazionale si spacca fra sostenitori di al Sarraj e di Haftar, come aspettarci che i libici si riconcilino?
Entra qui in gioco la nostra capacità di lavorare sulla crisi libica anche con l’Egitto, malgrado la grave controversia sulla scomparsa di Giulio Regeni. La politica estera richiede talvolta i compartimenti stagni. Russia e Stati Uniti sono ai ferri corti sull’Ucraina, ma collaborano su Iran e Siria. Dopo l’abbattimento del Sukhoi russo da parte turca, Erdogan e Putin, teste dure se mai ve ne sono, hanno sì richiamato i rispettivi ambasciatori, ma li hanno poi rapidamente rinviati in sede e, nell’adottare sanzioni, hanno scientemente evitato quelle reciprocamente più dannose. L’Italia deve imparare.
Avevamo una politica africana quando l’Africa era meno importante. Negli Anni 80 avevamo la cooperazione, con l’iniziativa contro la fame e la desertificazione in Sahel, con programmi avanzati nel Corno d’Africa, in Mozambico, in Senegal, a Capo Verde. Abbiamo seminato, ma non raccolto. Quando l’Africa ha cominciato a crescere abbiamo chiuso i rubinetti e cominciato la miope chiusura di ambasciate: ne abbiamo meno che non negli Anni 70 quando il continente era in letargo postcoloniale. La Conferenza del 18 maggio a Roma, co-presieduta da Moussa Faki Mahamat, ministro degli Esteri di quel Ciad che è crocevia d’immigrazione illegale e di traffici, può segnare il punto di svolta.
Auguriamocelo: è ora che l’Italia abbia una politica africana.
vivicentro.it-editoriale / lastampa / Fronte Sud l’Italia alla prova STEFANO STEFANINI
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