Erdogan – scrive l’editorialista de La Stampa Stefano Stefanini – «rimane l’uomo forte ma indispensabile col quale la comunità internazionale e l’Europa si misurano su Siria, Mediterraneo, immigrazione e lotta al terrorismo. È giusto interrogarsi sulla democrazia in Turchia, ma la collaborazione con Ankara resta fondamentale».
L’Europa e la svolta di Ankara
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ayyip Recep Erdogan crede (in buona compagnia) che l’investitura popolare lo autorizzi a governare senza troppi lacci e lacciuoli di divisione dei poteri e di libertà di critica. Non ne faceva mistero. Così stava già governando, specie negli ultimi nove mesi grazie allo stato d’emergenza dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio. Adesso la nuova Costituzione gli dà ragione. Ha raggiunto il traguardo.
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Il Presidente turco l’ha spuntata con meno del 52% dei suffragi, malgrado una massiccia mobilitazione e una campagna chiaramente sbilanciata a favore del «sì», sulla scia di giri di vite e purghe massicce. Ha strappato la maggioranza ma non sfiora lontanamente il consenso. Gli basta. Ha cavalcato spregiudicatamente la roulette dei referendum che spaccano anziché unire. Manciate di voti sono sufficienti per imporre scelte risolutive su un’intera nazione. Il giorno dopo sta però ai vincitori decidere cosa fare del successo. Con un Paese diviso e diffidenze europee ed internazionali, il Presidente turco deve stare attento a non sopravvalutarlo.
All’interno Erdogan dovrà dimostrare che la nuova repubblica presidenziale, nelle sue mani, porta stabilità senza strangolare la libertà . L’ha promesso in campagna referendaria. Il futuro della democrazia turca si gioca nel bilanciamento fra i nuovi poteri del Presidente e la salvaguardia di un livello basilare di prerogative del Parlamento, della magistratura, delle opposizioni e dell’informazione. Se vi sarà . Una dose di scetticismo è d’obbligo.
Il quadro internazionale è complesso. La Turchia fa parte dell’Occidente. Spingerla fuori sarebbe autolesionismo. A parte la tradizionale appartenenza alla Nato, Ankara ha oggi un ruolo chiave nella crisi siriana e negli equilibri mediorientali fra Stati Uniti e Russia, fra Iran e Paesi del Golfo. Del resto, leader «forti», da Mosca al Cairo, sono la regola non l’eccezione. Con loro bisogna aver a che fare – e collaborare quando possibile. Questa è senz’altro la linea della nuova amministrazione americana, vedi la calorosa accoglienza riservata da Donald Trump ad Abdel Fattah al Sisi. Da Washington Erdogan ha poco da temere.
Gli europei non possono sottrarsi alla stessa iniezione di realpolitik. Si aggiungono due fattori: immigrazione e candidatura turca all’Ue. Sulla prima, Ankara ha il coltello dalla parte del manico. Siamo alla vigilia della buona stagione. Il rubinetto della rotta greco-balcanica è chiuso grazie all’accordo Ue-Turchia; se riaperto (avvisaglie non sono escluse), tornano gli sbarchi in Grecia e la marcia verso le frontiere dell’Ue – con le elezioni tedesche in settembre. L’Ue non può permetterselo; Erdogan lo sa. Vorrà incassare l’esenzione da visti; un no non è motivabile col referendum.
Il Presidente turco è invece sul filo del rasoio riguardo alla candidatura. Oggi la prospettiva di adesione non è realistica; lo sanno ad Ankara come a Bruxelles. Tenerla in vita facilita però l’atmosfera dei rapporti. La reintroduzione della pena di morte già ventilata da Erdogan chiuderebbe definitivamente qualsiasi spiraglio. L’Ue non avrebbe altra scelta che sospendere sine die il negoziato. La prova di forza del Presidente turco all’interno darebbe gratuito schiaffo ai valori europei che Bruxelles non potrebbe ignorare.
L’inebriamento da successo è pericoloso. Sofocle lo chiamò «hubris». Questo il rischio per Tayyip Recep Erdogan. In nove mesi è passato dalla sopravvivenza, grazie allo schermo di uno smart phone in una tragica notte di mezz’estate, alla piazza sbandierante «evet» (sì) in una serata di primavera. Ha di che ringraziare il carisma, ma anche la buona fortuna. Gettare ponti verso quel 49% del Paese che gli ha votato contro, verso un’Europa e un’Occidente di cui la Turchia ha bisogno, o sfidare tutti sentendosi più forte? La scelta è sua. Intanto Ue e Nato farebbero bene a tenergli porte e canali aperti.
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