Con il decreto “salva risparmio” approvato in Parlamento arrivano 20 miliardi di garanzie pubbliche per ricapitalizzare Mps e le due banche venete, su cui pesano i troppi prestiti deteriorati. La riattivazione del credito richiederebbe una drastica pulizia di bilancio. Impossibile a meno di vendere le loro sofferenze a prezzi di saldo.
Sofferenze bancarie: evitare le scorciatoie pericolose
Per le sofferenze bancarie, le ricette semplici e rapide, come la vendita generalizzata e la bad bank di sistema, sono pericolose e illusorie. Bisogna rassegnarsi a un paziente lavoro di gestione interna e di raccolta delle informazioni perché nasca un vero mercato. Il ruolo della vigilanza bancaria.
Svendere non è la soluzione
Un luogo comune si va diffondendo nel dibattito sul nostro malandato sistema bancario: le banche dovrebbero fare presto a disfarsi del peso dei crediti deteriorati, cedendoli sul mercato, anche a costo di venderli a prezzi ben inferiori al loro attuale valore contabile. Ciò sarebbe necessario per fare ripartire l’offerta di credito. Solo a titolo di esempio, cito l’articolo di Guido Tabellini sul Sole-24Ore del 22 gennaio 2017: “L’intero sistema bancario italiano andrebbe spinto a disfarsi dello stock di crediti deteriorati, seguendo l’esempio di Unicredit”.
Le evidenze empiriche recentemente prodotte dalla Banca d’Italia mostrano, a mio avviso, come questa visione non tenga conto della realtà dei bilanci bancari.
Dai numeri della Banca d’Italia emergono tre cose. Primo, nel decennio 2006-2015, vendendo le sofferenze sul mercato, le banche italiane hanno recuperato in media il 23 per cento del loro valore nominale, mentre attraverso la gestione ordinaria hanno recuperato il doppio, il 47 per cento. Secondo, le banche hanno già svalutato i prestiti a soggetti insolventi, portandone il valore contabile a un livello adeguato al tasso atteso di recupero: il loro valore al netto delle rettifiche è ormai mediamente pari al 41 per cento, rispetto a un tasso di recupero medio nel decennio del 43 per cento. Terzo, il dato medio, relativo al tasso di recupero, nasconde una forte variabilità tra una banca e l’altra: ciò vuol dire che per alcune è possibile migliorare le procedure interne di recupero-crediti.
Tutto questo ci dice che la fretta nel risolvere il problema delle sofferenze accumulate in passato potrebbe produrre più danni che benefici. La cessione su un mercato dominato da pochi potenziali acquirenti, che richiedono elevati rendimenti attesi per il rischio che si prendono, costringe le banche ad accettare ulteriori pesanti svalutazioni dei prestiti deteriorati, nonostante il fatto che il loro attuale valore contabile rifletta adeguatamente le perdite attese.
La politica aggressiva di Unicredit ne è una prova: la cessione dei prestiti deteriorati a prezzi stracciati (le indiscrezioni parlano del 15-20 per cento del nominale) ha comportato perdite nel conto economico dello scorso anno per oltre 12 miliardi, costringendo la banca all’ingente aumento di capitale in corso. Vogliamo davvero che tutte le banche italiane realizzino un massiccio trasferimento di valore a favore dei pochi operatori presenti sul mercato delle sofferenze? Quante perdite immediate andrebbero contabilizzate a livello di sistema? Quanto capitale andrebbe raccolto sul mercato per ricapitalizzarle? Quale sarebbe l’impatto sui debitori, come conseguenza delle strategie aggressive di recupero da parte degli intermediari che acquistano i prestiti deteriorati?
Il mito della bad bank
Un altro mito è quello della “bad bank di sistema”. Chi la propone non si rassegna al fatto che una bad bank con il supporto pubblico, che acquisti i crediti deteriorati a un prezzo superiore a quello di mercato, si scontra con la normativa europea sugli aiuti di stato: per cedere le sue sofferenze a un simile veicolo, una banca dovrebbe sottoporsi al burden sharing, cioè sacrificare i suoi azionisti e obbligazionisti subordinati.
L’ultima trovata su questo fronte è venuta dal presidente dell’Eba (European Banking Authority), Andrea Enria. La sua proposta prevede la creazione di una bad bank europea, che acquisti dalle banche le sofferenze a un “prezzo di trasferimento” superiore a quello di mercato e cerchi poi di rivenderle a quel prezzo. Se entro tre anni non ci riuscisse, la differenza tra il prezzo di trasferimento e quello di mercato sarebbe coperta dalla banca originator. Il meccanismo è stato pensato per evitare che la cessione iniziale sia considerata un aiuto di stato. Peccato che in questo modo si perde il beneficio della cartolarizzazione, perché la banca non può de-consolidare i prestiti dal suo bilancio e quindi non ha alcun beneficio in termini di ratios patrimoniali.
Che fare?
E
allora cosa si può fare? Bisogna rassegnarsi che la soluzione non è la stessa per tutti e richiede tempo. Per qualche banca può essere meglio tenersi i prestiti deteriorati e recuperarne parte del valore attraverso la gestione ordinaria. È una gestione che può migliorare, passando dal vecchio ufficio legale a moderni sistemi di gestione delle informazioni e creando unità dedicate all’attività di recupero, specializzate per settore: recuperare un mutuo immobiliare non è la stessa cosa che recuperare un prestito a una impresa manifatturiera.
Per altre banche può essere meglio vendere, ma anche in questo caso la raccolta e organizzazione delle informazioni sulle posizioni deteriorate è essenziale perché si sviluppi un mercato dove il rischio per gli acquirenti sia inferiore a quello di oggi, e quindi i prezzi siano più ragionevoli. Su questo fronte le banche italiane devono recuperare un forte ritardo. Anche la Vigilanza deve fare la sua parte. L’orientamento espresso di recente va nella giusta direzione: evitare di assillare le banche perché cedano in fretta le sofferenze, purché presentino piani credibili di gestione del problema.
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