Corruzione, l’inchiesta di Napoli riapre il caso dell’agente provocatore: Pecunia non olet. Per tanti questo è molto più di un comandamento. E’ un modo di essere. La spazzatura olet, ma non per chi, su di essa, fa affari d’oro. Per loro la monnezza è come lo Chanel numero 5.
Alla trentaduesima, alla fine cedette. E accettò i soldi.
Questa è la storia delle trentuno tentazioni di un amministratore pubblico americano e di uno strumento, quello dell’agente provocatore, che divide gli stessi magistrati. Ma che torna d’attualità dopo l’inchiesta Fanpage di Napoli, in cui un ex boss ed ex pentito della camorra si trasforma in esca non autorizzata per avvicinare funzionari e politici, a cominciare da Roberto De Luca secondogenito del presidente della Campania, e metterli alla prova sulla corruzione. Un lavoro, che diventa materiale per l’indagine della Procura napoletana e che riapre il dibattito intorno ad uno strumento controverso nel contrasto alle tangenti.
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N
ello stesso anno in cui Nunzio Perrella, già collaboratore di giustizia che ora prova ad adescare potenziali corrotti, spiegava ai pm di Napoli perché “la monnezza è oro”, negli Stati Uniti si giudicava il caso del funzionario pubblico, tentato per più di trenta volte dallo Stato per verificare la sua correttezza. Era il 1992 e un agente Fbi decise di mettere alla prova un amministratore della contea di Dekalb, Georgia. Fingendosi un immobiliarista, per due anni e mezzo provò a “convincere” il funzionario a prendere soldi in cambio della promessa di un voto favorevole alla riqualificazione di un’area urbanistica, circostanza ben nota anche alla casistica italiana della corruzione. Per persuaderlo, il finto immobiliarista- agente sotto mentite spoglie – gli offre una tangente. Una mazzetta, una bustarella, insomma soldi. Soldi che l’amministratore comunale per ben 31 volte rifiuta e tira dritto sulla sua strada. Alla trentaduesima, invece, cede. Si mette in tasca i dollari – non sollecitati – e cade in tentazione. Oltre che nell’accusa – e successiva condanna – per corruzione: il caso arrivò alla Corte Suprema (sentenza Evans versus Usa, giudice Stevens 1992). E “la Corte ha escluso che l’incriminazione richieda una condotta di induzione da parte del soggetto attivo e ha ritenuto sufficiente la mera accettazione passiva”, scrive Gian Luigi Gatta, professore di Diritto Penale all’Università Statale di Milano, sulla Rivista Italiana di diritto e procedura penale (n. 3/2016) in uno studio sulla corruzione e l’ agente provocatore, figura contemplata negli Stati Uniti, al contrario che in Italia (“La repressione della corruzione negli Stati Uniti, strategie politico-giudiziarie e crisi del principio di legalità”). “L’idea di uno Stato che tenta il cittadino per vedere fino a che punto resista, è uno Stato che forse realizza una Giustizia che non è confacente all’ideale liberale e si presta anche ad abusi”, riflette poi. Il ricorso all’agente provocatore è stato anche bocciato più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nel 2008, ad esempio, la Cedu condannò la Lituania (sentenza Ramanauskas contro Lithuania, 5 febbraio 2008) a pagare 30mila euro per danni al ricorrente, spiegando che “un conto sono le operazioni sotto copertura, altro è provocare il reato da parte di chi non aveva un proposito criminoso”, per violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Sulla stessa linea di Strasburgo è da tempo il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, che anche in un dibattito alla Statale di Milano, a 25 anni da Mani Pulite nel marzo 2017, concordò con Gatta sul “via libera all’agente infiltrato, no a al provocatore, perché va contro anche il diritto di difesa”. Anche nel 2014, la Corte europea di Strasburgo si pronunciò contro (Taraneks versus Lituania), riscontrando una violazione ancora dell’articolo 6 comma 1 Cedu, perché “il ricorrente era stato istigato da un agente provocatore infiltrato”.
Dell’uso di questo strumento si torna a discutere ciclicamente, in Italia – e a dividersi molto più che sull’adozione di benefici per chi collabori nelle indagini, come avviene per la mafia – ogni volta che si rianima il dibattitto sulla lotta alla corruzione. “Anche perché la corruzione è sempre più uno strumento usato dalle mafie e quindi bisognerebbe contrastarla con le stesse armi”, obietta chi tra le toghe – come l’ex procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti – è favorevole all’introduzione di questa figura, sulla base anche di una pronuncia della Convenzione Onu di Palermo del Duemila. Come lui altre autorevoli toghe sono d’accordo, come l’ex pm di Mani Pulite Pier Camillo Davigo, ma altrettante sono contrarie. E anche per questo, è sempre rimasto fuori da ogni riforma legislativa.
Una spaccatura che si ripropone ora nelle discussioni, dopo l’inchiesta Fanpage con l’ex boss della monnezza usato come esca dal sito d’informazione, che poi ha consegnato il materiale raccolto e i tanti video registrati di nascosto all’attenzione della Procura di Napoli, che valuterà il tutto.
In realtà, se poi si analizza il massimario della Cassazione, si scopre come la corruzione non sia solo nei grandi scandali di cui si discute nel dibattito pubblico, ma anche e soprattutto nella quotidianità silenziosa. “Nei soldi dati dalla vecchietta al dipendente comunale, per avere il loculo al cimitero accanto a quello del marito o la bustarella allungata alla segretaria del medico, per saltare la lista d’attesa”, elenca Gatta. Ma anche questa è corruzione. Proprio come i grandi scandali, che toccano la politica e la pubblica amministrazione, con metodi sempre più raffinati. “In un’evoluzione darwiniana del corrotto”, per dirla con Davigo, vista l’evoluzione della specie, da Tangentopoli in poi.
vivicentro.it/CRONACA – SUD
ilsole24ore/Corruzione, l’inchiesta di Napoli riapre il caso dell’agente provocatore (Raffaella Calandra)
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