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Corleone: il Comune sciolto per mafia dove la Chiesa si veste da Stato

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Andrea Malaguti è stato a Corleone: nel Comune sciolto per mafia dove la Chiesa si veste da Stato, per i giovani rimane solo il volontariato.

Contrada San Marco a Corleone dove la Chiesa si veste da Stato

Comune sciolto per mafia, per i giovani c’è solo il volontariato

CORLEONE – La donna ha tre figli che non sa come campare, i denti larghi, curati male, una vita che spesso fa schifo e un marito libico che se n’è andato al nord lasciandola sola dopo averle dato un sacco di botte. Eppure oggi si sente bene. Se si gira verso destra, dall’altra parte della strada, ma in qualche modo lontanissima, vede Corleone, distesa irregolarmente sotto la coperta delle sue contraddizioni e delle sue paure. E davanti, con la sua bellezza stanca e i suoi campi di grano anneriti da incendi intimidatori, la valle del Belice. Il silenzio quotidiano è fatto più di solitudine che di pace, di guerre di cui non parla più nessuno lontano da qui, di controllo del territorio.

Ma è a guardare sotto, dal balcone della piazzetta, arredata con lampioni sfondati dalle sassate, che questo pomeriggio le si alleggerisce il cuore. «Lei non sa che regalo ci ha fatto don Luca, nessuno pensa a noi». Don Luca, che è un frate – quello degli spot dell’8 per mille, «chiedetelo a don Luca» – farfuglia qualcosa imbarazzato e dà il merito al vescovo. «Ha organizzato tutto lui, monsignor Pennisi». Poi dice: «dai, manda di sotto i ragazzi a giocare con gli altri», mentre l’aria all’improvviso si riempie della musica delle chitarre degli animatori di RelAttiva, un’associazione che crede nella relazione – qualcuno ricorda ancora il significato della parola? – come prima fonte di benessere. Solo che le relazioni tra i cinquecento abitanti del quartiere, dei loro figli senza futuro, sono rasoterra.

E spesso sono fatte di risse e di insulti. Di furti di acqua e di corrente. Di liti per i rumori molesti, per i latrati dei cani, le bici rubate, lo spaccio della marijuana e per l’alcol. Di povertà e piccoli lavoretti, di raccolta di fieno e di meloni e, quando capita, di manovalanza a basso costo per Cosa Nostra. «Il peccato è figlio del bisogno», dice la signora prima di segnarsi fronte, petto e spalle. E i servizi sociali? «Ci vogliono soldi anche per quelli e qui non ce ne sono», spiega don Luca. I ragazzi si arrangiano come possono, rischiando di diventare inutili come alberi che crescono bassi e storti senza mettere foglie.

«Eppure io in loro ci credo. La nostra comunità ci crede». Per questo RelAttiva, i frati, i volontari e la parte migliore delle confraternite di Corleone, quelle che ospitano gli immigrati e insegnano loro l’italiano, adesso sono qui. Per stare un pomeriggio assieme dove assieme non sta nessuno. I giovani del quartiere sono diffidenti. Guardano dai balconi, dalla collina, da dietro le macchine e solo quando sentono la musica e vedono il cibo decidono che sta succedendo qualcosa che non succede mai. Qualcosa che rischia persino di farli stare bene.

LE CASE ABUSIVE

Contrada San Marco scivola lungo un declivio bollente consegnato alle case popolari. Metà, la parte più alta, le ha prese chi ne aveva diritto. L’altra metà le hanno occupate abusivamente, arrivando anche da Palermo. Hanno sfondato le porte e hanno detto: nostre. Come se vivere lì fosse un privilegio. Nella diocesi a più alta infiltrazione mafiosa della Sicilia, quella di Monreale, guidata da un vescovo settantenne abituato a confrontarsi con la strada, a viverci in mezzo, contrada San Marco è forse la periferia più periferia di tutte. Pensato come quartiere residenziale, si è trasformato in fretta in un ghetto. Più che Milano 2 sembra lo Zen. Gli unici libri sono quelli della parrocchia e per arrivare a scuola servirebbe un pullmino. Che però non c’è. O meglio c’è, ma passa da un’altra parte nonostante le preghiere di deviare il tragitto di un paio di chilometri, mica tanto, una cosa semplice, che non si fa. Il tasso di evasione scolastica è tra i più alti d’Italia.

Il paradosso, in una terra che nella storia di questo Paese ha un significato preciso, è che di Stato dovrebbe essercene moltissimo, perché il 10 agosto del 2016 il Comune di Corleone, sul cui cartello d’ingresso spicca un involontariamente autoironico: «benvenuti nella capitale mondiale della legalità», è stato commissariato per infiltrazioni mafiose. I commissari sono addirittura tre. Ma lo fanno part time. Perché devono occuparsi altrove di problemi altrettanto seri, come gli sbarchi dei profughi sulle coste di Pozzallo. A Corleone ci vengono a rotazione, tre volte a settimana. E la loro vera ossessione è chiudere un buco di bilancio da sei milioni di euro. Per il resto si vedrà. Così, di notte, il paese di Riina e Provenzano, in cui Ninetta Bagarella gestisce ancora il tesoro di famiglia (l’ultimo sequestro dei Ros è arrivato il 19 luglio), resta con le strade al buio. L’acqua è razionata e se non ci fosse la solidarietà di una parte della società civile, sostenuta da una Chiesa che, dopo decenni di collusioni, curiosamente si mobilita, finirebbe per andare tutto in malora. «Il nostro ruolo dovrebbe essere sussidiario, invece finisce per essere centrale», dice don Luca. Interessa a qualcuno?

«GIOCHIAMO A FARE IL BOSS»

Stamattina Monsignor Pennisi si è svegliato alle sette. Lasciando Monreale è passato da Tagliavia per la festa della raccolta del grano e mentre la macchina lo porta a Corleone racconta di una diocesi dove i bambini giocano a fare i boss mafiosi e dove a Prizzi, tra Corleone e Sciacca, l’alcol e la droga sono diventati il problema più grosso tra giovani abbandonati a loro stessi. Riceve la telefonata di un magistrato minacciato dalla mafia assieme a un giornalista. Gli dice: «vediamoci presto». Poi giura che esiste sempre una strada buona da prendere. «Questo dirò oggi a Corleone. Dirò, citando Francesco, che i giovani devono avere il coraggio di vivere felici. Aggiungerò che Corleone è libera. Che nessuno è padrone del loro destino». E quando sale sul palco improvvisato del quartiere San Marco – uno dei tanti non luoghi italiani – è esattamente questo che dice. Sembra una cosa da poco. Invece è molto.

«In questa piazza faremo arrivare un container e lo trasformeremo in un punto di ascolto. Saremo qui ogni giorno. Per fare sentire a queste persone che non sono sole», dice don Luca. Prende Monsignor Pennisi sotto braccio e lo porta in casa di Giovanna, che ha tre figli – una in comunità a Partinico, uno con piccoli problemi di fumo e di spaccio e uno ancora troppo piccolo – e un corpo enorme fatto esplodere da qualche ghiandola fuori controllo. Ha gambe maldestre che hanno smesso di ubbidirle e quando vede il Monsignore gli occhi le si riempiono di lacrime. «E’ bello che lei sia qui», dice sottovoce. E si piega a baciargli una mano, come se solo in questo modo potesse contenere tutto il dolore che ha dentro. Così la domanda ritorna identica: interessa a qualcuno?

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