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er le banche nell’area euro siamo solo in grado di erigere una struttura di legno, non di acciaio, aveva detto Wolfgang Schäuble tre anni fa. Purtroppo ora nella tempesta della Brexit il legno scricchiola assai, e in punti che rivelano quanto fosse frettolosa la costruzione di cui il ministro delle Finanze tedesco invitava a contentarsi.
Va detto che sulle quotazioni azionarie delle banche si scaricano tensioni da cui l’azione della Bce protegge i titoli pubblici.
Le difficoltà del settore sono quelle già conosciute; è il ritorno di una speculazione sulla fragilità dell’euro a metterle in evidenza. Tuttavia, l’instabilità finanziaria può, come altre volte, autoalimentarsi.
Proteggere le banche italiane implica un rompicapo multiplo. Le regole europee vietano l’uso di denaro pubblico, eppure le autorità di Bruxelles si rendono conto che l’instabilità può giocare brutti scherzi. Il governo italiano non ha soldi; le opposizioni sono pronte ad accusarlo di salvare i banchieri; i banchieri, non volendo allarmare i mercati, negano di aver bisogno di soccorso.
Non sarà facile uscirne. La soluzione migliore, un intervento collettivo europeo, se adottata per tempo avrebbe forse consentito di recuperare per intero i soldi dei contribuenti, come è avvenuto negli Stati Uniti con il programma Tarp. Nei primi anni, ogni Paese dell’euro ha fatto per conto proprio; dopodiché si è dichiarata finita la crisi, vietando aiuti di Stato dall’agosto 2013.
Si poteva discutere, fino al referendum britannico, se l’Europa avesse deciso troppo presto di lasciare libero corso al mercato, e alla eventuale scomparsa delle banche più deboli, oppure se fosse stata l’Italia a sbagliare non intervenendo prima. Oggi l’occasione («kairòs» in greco antico, ricorda Matteo Renzi dal liceo classico) è buona per tagliar corto e ripensare alcune scelte.
Può darsi che il governo italiano usi la Brexit come pretesto, come dicono analisti finanziari maligni. Sta di fatto che gli strumenti europei sono insufficienti. Senza le putrelle d’acciaio che la Germania non ha voluto – assicurazione comune dei depositi, fondo comune di risoluzione – è difficile evitare che ogni Stato puntelli la baracca per conto proprio in caso la senta tremare.
Tuttavia all’interno il compito è ingrato. Un intervento pubblico darebbe fiato ad accuse svariate («il governo mette le mani nelle banche» oppure «il governo salva i banchieri», che a ben riflettere sono opposte). Alcuni banchieri preferiscono non essere aiutati, anche a prezzo di rimpicciolire le loro banche; altri forse si augurano un appoggio nel mentre dichiarano di non gradirlo.
Difendere l’«italianità » del nostro sistema creditizio è esattamente ciò che l’ha reso debole in Europa e nel mondo, prolungando la sua carenza di capitale. Intanto la costruzione dell’unione bancaria europea è rimasta fragile per la simmetrica complicità in ogni Stato tra potere politico e finanza. Comunque si intervenga, non si dia l’impressione di farlo a tutela degli equilibri esistenti.
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