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Affrontare i grandi eventi: l’organizzazione come mezzo per superare le paure

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Affrontare i grandi eventi: l’organizzazione come mezzo per superare le paure

span style="font-weight: 400">Nonostante l’uomo possa vantare da millenni il presunto primato sulle specie terrestri, resta pur sempre un primate. Ciò comporta, ovviamente, che le sue dimensioni siano infinitesimali rispetto a tutto ciò che lo circonda e le derivanti fobie. Si può interpretare l’evoluzione tecnologica ed organizzativa dell’uomo in funzione di una continua ricerca alla soluzione diretta o indiretta di queste paure: la scoperta del fuoco,ad esempio, per schiarire l’oscurità della notte; la ruota per avvicinare le distanze, attenuando “l’infinito”; la nascita delle istituzioni religiose per calmare le ansie della vita e per dare un senso alla morte; la nascita delle istituzioni politiche e sociali per il bisogno di sicurezza. Insomma, si potrebbe attribuire la nascita della società stessa all’esposizione dell’uomo alla paura. Senza interrogarci sul trascendentale, si pensi semplicemente a quanto enorme fu il “balzo sociale” che l’homo sapiens si trovò costretto a fare per la Paura dei Mammut e dei grandi animali: ne regolò la quotidianità, le abitudini, l’alimentazione e l’architettura delle prime costruzioni a “palafitta”.
E’ molto probabile, inoltre, che la difficoltà insita nella caccia a prede così grandi abbia influito profondamente sulla socializzazione umana. Poiché è impensabile che un singolo cacciatore terrorizzato – armato di utensili di osso o di pietra – potesse uccidere una preda delle dimensioni di un mammut, i gruppi di cacciatori del passato dovevano cooperare tra loro per raggiungere l’obiettivo.
Agendo insieme, essi potevano attaccare su più lati, costruire trappole e, più in generale, adottare strategie complesse capaci di incrementare molto le loro probabilità di successo.
In altri termini, le necessità di cooperazione per la caccia e per la guerra hanno probabilmente rappresentato una forza evolutiva significativa per la nostra specie. Secondo gli antropologi Peter Richerson e Robert Boyd, gli “istinti tribali” di attaccamento al gruppo, i sentimenti di paura e coraggio, le capacità di interiorizzare norme sociali di cooperazione, e molte altre caratteristiche che fanno si che l’Homo sia un genere particolarmente cooperativo tra i primati, sono il frutto di un lungo processo di coevoluzione plasmato dalle necessità legate alla vita in gruppo.
 Il percorso dell’evoluzione tecnico-tecnologica e sociale dell’uomo è tracciato verosimilmente, dunque, verso la prospettiva di debellare ogni paura? Ammettendo che questa linea immaginaria sia effettivamente puntata diritta verso questa possibilità, è molto improbabile però che le paure a loro volta non si evolvano parallelamente, per lo stesso principio per il quale in medicina più la cura si migliora, più la malattia si evolve. Probabilmente secoli di filosofie e “terapie” contro la paura hanno fatto sì che essa non solo sia interpretata come un sentimento principalmente negativo, ma anche che dipenda esclusivamente da noi, lasciandoci l’illusione di poterla controllare o metterla da parte. E più è grande la presunzione più la paura ci coglie di sorpresa.
Si prendano ad esempio i due eserciti più organizzati ed efficienti della storia antica, quello Macedone e quello Romano, ed il loro disorientamento sul campo di battaglia vedendosi contrapposti dall’esercito nemico un contingente di elefanti. Come abbiamo visto, la paura per i pachidermi e per i grandi animali era stata superata da millenni grazie all’organizzazione, eppure l’esercito Macedone, che sotto la guida di Alessandro Magno si apprestava a sfidare addirittura le “divinità d’oriente”, si ritrovò così sbigottito e terrorizzato alla vista degli elefanti durante la battaglia di Gaugamela (331 a.C.) che le tattiche studiate per rendere inoffensive queste micidiali ”macchine da guerra” fallirono miseramente per la fuga o l’esitazione dei guerrieri. Lo stesso leggendario condottiero dovette ammettere la sconfitta della tecnica militare e vinse la battaglia solamente grazie alla catàrsi infusa nei guerrieri grazie a sacrifici e riti collettivi per onorare Phòbos, la divinità della paura.

Ben più tragica fu l’esperienza dell’Esercito romano nella battaglia di Heraclea (280 a.C.) contro Pirro, dove gli elefanti spazzarono via metà delle truppe di fanteria e cavalleria, causando la fuga di molti tra i più coraggiosi ed eroici milites. A differenza dei Macedoni, i Romani si intestardirono nell’uso della tecnica militare per soppiantare la paura, venendo però sconfitti a più riprese per 5 anni, riducendo notevolmente la propria egemonia militare sulla penisola.
Solo dopo essere venuti in contatto con mercanti e popoli orientali, i generali romani vennero a conoscenza del punto debole di ciò che incuteva loro così tanta paura, ovvero la paura stessa. Infatti in Oriente era ormai noto che, nonostante ben addestrato, un pachiderma è spesso atterrito dalla paura per animali più piccoli e dai rumori forti. Fu così che, abbandonando la tecnica ed utilizzando mezzi inconsueti sul campo di battaglia come i tromboni o l’utilizzo del grugnito dei maiali, i romani riuscirono a riottenere il controllo sulla penisola.

Queste due esperienze comuni mettono in guardia dal pericolo meno immediato della paura: l’esclusività propriamente occidentale della razionalizzazione delle forze ingestibili, col mero tentativo di porre la paura in un piano inferiore, dominato dalla tecnica e dalla ragione, minimizzando il rischio che essa ci possa prendere impreparati. Ed è qui che la paura si evolve in “Paura della Paura”.
Negli ultimi giorni a causa della terribile tragedia del crollo di Ponte Morandi a Genova e all’impatto che tale dramma ha avuto sugli italiani ci siamo sentiti un po’ tutti come i piccoli primati di cui sopra, indifesi contro un evento di tale portata. Un’opera imponente che seppur creata dall’uomo nessuno è riuscito a tenere sotto controllo per mancanza, colposa o preterintenzionale, di organizzazione. Le polemiche alla ricerca del colpevole faranno banco per mesi. Ma ciò che lascia perplessi è una politica che nonostante si dichiari sinceramente commossa nei confronti delle vittime sta spingendo sempre più verso una visione degli aventi da Bellum omnium contra omnes, una guerra di tutti contro tutti che allontana le parti civili che si concretizza spesso in attacchi contro il diritto, contro le istituzioni e contro i principi sanciti nella Costituzione di un’Italia che tutti vorrebbero difendere con scazzottate da bar invece che con la comunione di intenti.

RIPRODUZIONE RISERVATA

A cura di Mario Calabrese

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