Lo ha deposto, al quinto giudizio in corso, la moglie del finto collaboratore di giustizia aggiungendo che veniva imbeccato da poliziotti per dire il falso.
È in corso a Palermo il processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Borsellino. Imputati di calunnia aggravata i tre funzionari di polizia che avrebbero creato a tavolino falsi pentiti, come Scarantino, costretti a raccontare una verità di comodo sull’attentato. Per l’accusa i poliziotti, Fabrizio Mattei, Mario Bo, e Michele Ribaudo , avrebbero confezionato una verità di comodo sulla fase preparatoria dell’attentato e costretto appunto Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti.
Un piano costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti scagionati, una volta scoperte le falsità, dal processo di revisione che si è celebrato e concluso a Catania il 13 luglio 2017. La svolta nell’inchiesta della Procura di Caltanissetta, che dopo anni di inchieste e grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, è riuscita ad individuare i veri artefici della fase preparatoria della strage, era arrivata a ridosso dal deposito della sentenza emessa nel corso dell’ultimo processo per l’eccidio di Via D’Amelio e le cui motivazioni sono state depositate il 30 giugno dell’anno scorso.
Il falso pentito Vincenzo Scarantino, arrestato il 29 settembre 1992, si era accusatosi di aver partecipato all’attentato contro il giudice Paolo Borsellino in via D’Amelio. Dopo essere stato recluso nel carcere di massima sicurezza di Pianosa, decise di collaborare con gli inquirenti spiegando come venne organizzata la strage, sicché venne condannato a 18 anni per poi accusare i poliziotti e magistrati, che lo avrebbero spinto a fare quelle accuse. Nel 1998 Scarantino ha ammesso di non avere preso parte all’attentato di via D’Amelio e di essere stato costretto da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo a confessare il falso e di aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. Qualche anno addietro, il pentito Gaspare Spatuzza ha confessato di essere stato l’autore del furto dell’auto FIAT 126 usata per l’attentato, scagionando Scarantino e dimostrando che quest’ultimo era un falso pentito, usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino.
Da queste pagine se n’era scritto l’anno scorso nel giorno della commemorazione di Via D’Amelio in cui il dr. Borsellino e la sua scorta il 19 luglio 1992 furono uccisi da un’autobomba “26 anni fa in Via D’Amelio a Palermo, la mafia uccideva Paolo Borsellino” <<La strage di via D’Amelio fu un attentato di stampo terroristico-mafioso nel quale persero la vita il magistrato italiano Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo, risvegliatosi in ospedale dopo l’esplosione, in gravi condizioni>>.
Ora dopo 26 anni e quattro lungi processi con depistaggi di ogni genere, nell’ultima sentenza del “Borsellino quater” del 20 aprile 2017 (dep. 30 giugno 2018) la Corte d’assise di Caltanissetta in 1.856 pagine e dodici capitoli della motivazione, hanno fissato in maniera chiara i misteri ancora irrisolti e hanno indicato una strada per proseguire le indagini. Accertamenti che puntano al cuore dello Stato. Scrisse la corte: “È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi“.
Adesso si è riaperto il quinto giudizio. La moglie di Scarantino sentita come teste ha puntato il dito contro l’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera, nel frattempo morto, descrivendolo come la mente del piano ordito per depistare le indagini attraverso la creazione di collaboratori di giustizia fasulli, costretti a mentire con minacce fisiche e psicologiche.
[Dopo la detenzione a Pianosa – ha raccontato la donna – improvvisamente ammise il furto della 126 usata come autobomba per la strage. Mi disse “devo farlo anche se sono innocente altrimenti mi ammazzano”].
Rosalia Basile parla di botte, minacce, aggressioni fisiche e psicologiche, verbali con accuse false fatte imparare a memoria. La teste ha raccontato che il marito venne imbeccato dai poliziotti guidati da Arnaldo La Barbera, perché mentisse sull’attentato e desse la versione di comodo che loro avevano imbastito. La donna ha indicato nei poliziotti Ribaudo e Mattei, imputati al dibattimento in corso, di aver preparato il marito perché rendesse la deposizione che a loro faceva comodo facendogli imparare a memoria una sorta di parte. E in Bo, l’altro funzionario sotto processo, l’autore di una aggressione subita dal marito dopo la sua prima ritrattazione.
La teste ha anche sostenuto che su input dell’ex pm Anna Palma, il marito era stato convinto a rivolgersi al Tribunale dei minori per farle togliere i bambini se avesse deciso di lasciarlo.
“Dovevo rimettere a posto i pezzi del puzzle, devo lavorare su me stessa anche per ridare giustizia a chi la merita” ha invece risposto la donna alle domande dei legali che le chiedevano come mai non avesse rivelato prima che il marito aveva i numeri di telefono dei pm di Caltanissetta e che aveva con loro contatti telefonici.
“Avevo rimosso tutto, ora sto ricordando”, ha aggiunto la donna che ha consegnato al tribunale pagine di una agendina tascabile su cui lei stessa aveva trascritto i numeri dei magistrati copiandoli da appunti del marito.
La teste ha poi proseguito “Cercai di contattare la signora Borsellino per dirle che mio marito veniva picchiato per farlo pentire e che era innocente. Mi rivolsi anche al Papa e al capo dello Stato. Citofonai a casa Borsellino scese un uomo che mi disse che la signora non se la sentiva di parlarmi visto il lutto sofferto“.
Nel suo racconto Basile ha aggiunto che trovò “a casa dei foglietti del mio ex marito con i numeri dei cellulari e dell’ufficio dei pm, all’epoca in servizio a Caltanissetta, Nino Di Matteo, Anna Palma, Carmelo Petralia e Gianni Tinebra. A volte si chiudeva in stanza per parlare con loro al telefono”. La donna, citata a deporre al processo in corso a Caltanissetta a carico di tre funzionari di polizia non aveva mai rivelato prima dei rapporti telefonici tra il marito e i magistrati.
In merito ai numeri di telefono, è intervenuto con una nota il pm Nino Di Matteo: “Spontaneamente, io per primo, all’udienza del processo Borsellino Quater, smentendo Scarantino, che aveva detto che non mi aveva mai telefonato, ho raccontato che qualcuno gli aveva dato a mia insaputa il mio numero di cellulare perché una volta mi aveva telefonato e un’ altra mi aveva lasciato otto messaggi in segreteria telefonica. Non c’è nessuna novità – ha aggiunto Di Matteo – come si evince rileggendo le pagine 39 e 40 della trascrizione della mia deposizione in udienza nel Borsellino quater”.
Il processo continua. Sapremo mai tutta la verità e se “in alto” chi o cosa e perché, fece uccidere il dr. Borsellino e la sua scorta ma come anche il dr. Falcone, sua moglie e la scorta ?
A
dduso Sebastiano
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