Il 2 giugno del 1946 si votò per il referendum Monarchia-Repubblica, ma anche per l’Assemblea Costituente, e l’Uomo Qualunque di Giannini ottenne un successo clamoroso che gli permise di eleggere trenta deputati.
I
l suo programma, ostile ai partiti e alla grande industria e incentrato sulla difesa del ceto medio, suonava la stessa musica degli attuali movimenti anti-establishment. Però all’epoca il nasone sopraffino di Alcide De Gasperi fiutò l’aria. Fece suoi molti degli umori e dei malumori di Giannini e nel giro di un paio d’anni la spinta dell’Uomo Qualunque venne completamente assorbita dalla Democrazia Cristiana. Oggi mancano i De Gasperi e le condizioni per esserlo, ma sta di fatto che le classi dirigenti di tutto il mondo ignorano o scherniscono le richieste del ceto medio impoverito dalla crisi e stanno consegnando la democrazia a forze autoritarie di natura opaca che non puntano più all’alternanza, ma allo scardinamento del sistema.
Le élite economiche, politiche e giornalistiche sembrano incapaci di reagire e persino di capire cosa stia succedendo. Si brinda allo scampato pericolo di un presidente reazionario in Austria, come se quei milioni di voti fossero scomparsi il giorno dopo le elezioni: mentre restano lì, pronti ad aumentare la prossima volta. I sondaggi sul referendum inglese di giugno vedono in testa i sostenitori dell’uscita dall’Europa, quelli francesi danno Marine Le Pen nettamente favorita alle presidenziali del 2017. In America le brigate rozze di Trump avanzano come caterpillar, impermeabili a ogni scandalo. Se il Washington Post che affossò Nixon scatenasse oggi un nuovo caso Watergate contro il candidato repubblicano, «the Donald» non perderebbe neanche un voto perché chi lo appoggia non si fida più dei mezzi di informazione: li considera asserviti agli interessi finanziari di una micro-casta, esattamente come i politici. Per cogliere l’aria che tira anche da noi, l’altra sera su Sky si è svolto un confronto tra i candidati alla poltrona di sindaco di Roma. L’avvocato Virginia Raggi dei Cinquestelle, tutta smorfie di disgusto e sguardi di degnazione, era simpatica come un cubetto di ghiaccio infilato lungo la schiena, eppure nel sondaggio seguito al dibattito è risultata di gran lunga la preferita dai telespettatori.
Di fronte a questa rivoluzione rumorosa che rischia di cambiare in senso reazionario la geografia politica del pianeta, gli eredi dei partiti che settant’anni fa si opposero vittoriosamente al nazifascismo appaiono non solo impotenti, ma ottusi. Si baloccano con i numeri freddi dell’economia, parlano di crescita e di riforme, ma continuano a ignorare l’urlo di dolore che sale dai tinelli della piccola borghesia che giorno dopo giorno si vede trascinare in basso nella scala sociale. Operai, insegnanti e impiegati che non riescono più a mandare i figli all’università. Che vedono il lavoro andare all’estero e poi ritornare con stipendi da fame. Che vivono in quartieri periferici dove non si sentono più a casa propria per la presenza sproporzionata di extracomunitari. A queste persone interessa poco che i migranti portino un punto e mezzo di Pil in più l’anno, perché non ne vedono le ricadute nella loro vita quotidiana. Sono offese, rabbiose, sgomente, spaventate. E da sempre la paura porta con sé la richiesta dell’uomo forte in grado di trovare soluzioni facili a problemi complessi.
Si tratta ovviamente di un’illusione, perché il mondo è complicatissimo e il cambiamento non si può fermare. Però lo si potrebbe ancora governare. Se le classi dirigenti si rendessero finalmente conto che tra un’azienda di alta tecnologia e una mensa di poveri – l’alfa e l’omega della globalizzazione – esiste la sterminata terra di mezzo di quei cittadini che, sentendosi ignorati dalla politica, cominciano a pensare di potere fare a meno della democrazia.
vivicentro.it/opinione – lastampa/Il ceto medio dimenticato e il populismo MASSIMO GRAMELLINI
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