Abraham Yehoshua è critico nei confronti del presidente statunitense: «Trump come Nerone osserva soddisfatto le fiamme sulla pace. Ha lanciato una torcia accesa nel già scoppiettante falò del conflitto mediorientale».
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opo non essere riuscito a costruire un muro fra gli Stati Uniti e il Messico, ad abolire l’Obamacare, a impedire l’arrivo di truppe iraniane nella Siria di Assad e a fermare la corsa al nucleare della Corea del Nord, che di recente ha lanciato un missile balistico ancora più potente e sofisticato dei precedenti in grado di colpire gran parte degli Stati Uniti, dopo i numerosi licenziamenti e la vergognosa gestione dell’amministrazione della Casa Bianca, Donald Trump ha deciso di fare qualcosa che non richiede uno sforzo particolare: ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele, senza specificare se la Gerusalemme alla quale si riferisce è quella di prima della guerra del ’67 o quella dopo, alla quale è stata annessa la zona abitata dagli arabi denominata Al Quds, nonché villaggi e vaste aree palestinesi mai appartenuti al suo agglomerato urbano.
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Questa insensata e gratuita decisione è paragonabile al lancio di una torcia accesa nel già scoppiettante e pericoloso falò del conflitto mediorientale.
Dubito che prima di attizzare il fuoco il presidente degli Stati Uniti, che in campagna elettorale si vantava, utilizzando una rozza terminologia da palazzinaro, di voler portare palestinesi e israeliani a concludere “un affare”, abbia dato un’occhiata alla mappa di Gerusalemme e capito ciò che vede.
Gerusalemme è la capitale di Israele fin dalla sua fondazione nel 1948. Tutto il mondo lo sa. Il presidente egiziano Anwar Sadat, quando firmò la pace, si recò a Gerusalemme senza dubitare nemmeno per un istante che la città fosse la legittima capitale dello stato ebraico. E Abu Mazen ha tenuto in questa città colloqui con i primi ministri israeliani. La domanda, quindi, è perché mai gli Stati Uniti dovrebbero approvare qualcosa che è noto a tutti e come mai le rappresentanze diplomatiche dei Paesi che mantengono relazioni con Israele si trovino a Tel Aviv invece che a Gerusalemme.
Per trovare una risposta a questa domanda dobbiamo tornare al 1947, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite decise di porre fine al mandato britannico in terra di Israele-Palestina e di dividere la regione in due stati, uno ebraico e l’altro palestinese. Gerusalemme, da sempre città nella quale ebrei e palestinesi vivevano in quartieri distinti, non sarebbe stata divisa ma avrebbe goduto di uno statuto speciale, per garantire a tutti il libero accesso ai luoghi sacri delle tre grandi religioni monoteistiche – la moschea Al Aqsa, il Santo Sepolcro e il Muro del Pianto – entro le mura della Città Vecchia (un’area che occupa soltanto un chilometro quadrato). I palestinesi non accettarono questa risoluzione, mossero guerra agli israeliani e nel 1948 scoppiò un cruento conflitto durante il quale gli eserciti di sette Paesi arabi invasero lo stato di Israele per distruggerlo sul nascere.
Gli ebrei respinsero l’attacco, mantennero i territori loro assegnati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e conquistarono una parte di quelli destinati allo stato palestinese. Non riuscirono però a conquistare i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, che rimasero in mano ai giordani unitamente alla Cisgiordania, mentre la Striscia di Gaza passò sotto il controllo dell’Egitto. Poiché i palestinesi e i Paesi arabi si rifiutarono di riconoscere lo stato ebraico, la regione rimase divisa per diciannove anni, fino alla guerra del giugno 1967, secondo le linee del cessate il fuoco riconosciute dall’armistizio arabo-israeliano siglato a Rodi nel 1949. Israele, nel frattempo, proclamò la zona ovest di Gerusalemme sua capitale e sebbene l’armistizio tra Israele e la Giordania prevedesse il libero accesso degli ebrei ai loro luoghi sacri nella Città Vecchia, i giordani, di fatto, lo impedirono. Così, fino al 1967, non ci furono palestinesi nella Gerusalemme ebraica né israeliani in quella giordano-palestinese.
Date le circostanze (la mancata implementazione della decisione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1947 in merito a Gerusalemme e lo stato di continua tensione tra palestinesi e israeliani) i Paesi che strinsero relazioni diplomatiche con Israele preferirono stabilire le loro rappresentanze a Tel Aviv, finché la questione di Gerusalemme non si fosse risolta. Pur accettando infatti che Gerusalemme Ovest fosse la capitale di Israele, ne rinviarono il riconoscimento formale a dopo la normalizzazione dei rapporti tra giordano-palestinesi e israeliani. Nel giugno 1967, con la guerra dei Sei giorni, la situazione si capovolse.
Israele occupò le zone palestinesi di Gerusalemme, le incorporò e dichiarò la città unita sua capitale. Per la comunità internazionale, naturalmente, fu ancora più difficile accettare questo status. Se lo avesse fatto, infatti, avrebbe approvato l’annessione a Israele di 250 mila palestinesi privi di cittadinanza, un’eventualità che avrebbe vanificato (e che continua a vanificare) qualunque possibilità di riconciliazione e di pace tra Israele e i palestinesi. Per questo, a partire dal 1967, tutti i presidenti statunitensi, democratici e repubblicani, hanno sempre badato ad affermare che il riconoscimento finale, de iure, di Gerusalemme come capitale di Israele, avverrà solo dopo la firma di un accordo di pace.
Trump, con la sua gratuita dichiarazione, ha indirettamente approvato l’annessione israeliana delle zone palestinesi di Gerusalemme e ha compromesso seriamente il già vacillante processo di pace. Non c’è quindi da stupirsi se alcuni alleati degli Stati Uniti come la Francia e la Gran Bretagna abbiano letto al Consiglio di sicurezza dell’Onu una risoluzione contraria alla dichiarazione di Trump, e che arabi e musulmani organizzino manifestazioni di protesta in tutto il mondo.
Anche Trump, come Nerone, sta osservando stupefatto, o forse con piacere, le fiamme che ha appiccato in Medio Oriente? In ogni caso, l’ambiguo “affare” che vorrebbe vedere concluso fra israeliani e palestinesi si fa sempre più allucinante.
ABRAHAM B. YEHOSHUA
(traduzione di Alessandra Shomroni/lastampa)
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