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Castellammare di Stabia

Amelia CIARNELLA 4. Ritorno in paese

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Di seguito il quarto racconto della signora Amelia Ciarnella maestra in pensione che con una rubrica fissa, collabora con il nostro giornale.
Se non avete letto il precedente racconto, lo potete leggere aprendo il seguente link.

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Amelia CIARNELLA 4. Ritorno in paese

Amelia Ciarnella - cartina-da-CaritasNella tarda primavera del 1944, dopo il catastrofico periodo di sfollamento trascorso a Roma, dove perdemmo mio fratello sotto un bombardamento aereo, che aveva solo sedici anni; tornammo in paese dove trovammo un completo sfacelo!

Tutto appariva diverso: le campagne incolte, giacevano sepolte sotto erbacce alte oltre un metro; alberi bruciati e spaccati, caduti di traverso sui viottoli di campagna che impedivano di passare, materiale bellico sparso ovunque: bossoli, bombe a mano, mine anticarro, collegate l’una all’altra con un filo di acciaio e polvere da sparo a forma di spaghetti: che molti usarono anche per accendere il fuoco nel camino.

Ma a due persone che lo fecero, senza nessuna precauzione perché poverini, ingenui e ignari del pericolo, fu fatale.

Questo successe a due anziani coniugi, dopo qualche mese che eravamo arrivati in paese. Avevano raccolto questa polvere da sparo a forma di spaghetti e ne avevano riempito due cassette di ferro, sistemandole vicino al camino, dove loro sedevano abitualmente per riscaldarsi.

Ma una sera, mentre chiacchieravano piacevolmente con una vicina, il fuoco dopo aver riscaldato ben bene sia loro due, che la loro amica, passò ad arroventare anche le due cassette di metallo, sulle quali sedevano e che poco dopo esplosero con grande fragore, facendoli saltare per aria tutti e tre.

Io li andai a vedere, perché abitavano vicino casa mia e, insieme ad una mia cugina, undicenne come me, curiose entrambe di vedere come sarebbero diventate le persone dopo morte! ogni volta che moriva qualcuno, prese sempre dalla stessa curiosità, andavamo a vederli tutti!

Però quando andammo a vedere questi due anziani coniugi, morti bruciati, ci spaventammo parecchio, poiché mentre eravamo nella stanza dei defunti, insieme a tanti altri visitatori, senza poterli nemmeno vedere, poiché inguardabili, a causa delle gravi ustioni e gonfiori, sparsi in tutto il corpo e li avevano perciò coperti: all’improvviso sentimmo un rumore come un grosso soffio e contemporaneamente uno dei due cadaveri si mosse! (Evidentemente la pelle troppo gonfia e tesa si era lacerata da qualche parte sgonfiandosi, provocando così quel leggero movimento del cadavere).

Io e mia cugina, che non avevamo né l’età, né la maturità per assistere indifferenti ad una scena del genere, corremmo via terrorizzate, ripromettendoci che, da quel momento in poi, non saremmo più andate a vedere morti!

Purtroppo a undici anni, si hanno anche queste curiosità e non si pensa mai alle tragedie degli altri!

Ma tornando alle condizioni in cui trovammo il nostro paese, ricordo che appena raggiungemmo a piedi, la sommità della collina, da dove si poteva vedere tutta la vallata fino al mare, la prima cosa che ci colpì, fu l’inondazione completa della pianura del Garigliano: sembrava che il mare si fosse avvicinato così tanto da rasentare la collina.

Con la sola differenza che l’acqua, anziché azzurra come quella del mare, era un po’ torbida e biancastra: appariva come una enorme tavola ferma e piatta.

Proseguendo poi verso Tufo, ci aspettava un’altra brutta sorpresa.

Pochi metri prima di entrare in paese, sopra un terreno confinante con la strada e alla portata di tutti, c’era un grosso deposito di bossoli da cannone che dopo qualche mese esplose, per colpa di alcuni “affaristi” che cominciarono a manometterli, svuotandoli, per poterne prendere il rame e venderselo: cosa questa che provocò diversi morti e feriti, fra la già scarsa popolazione!

Arrivati poi dentro il paese, trovammo il corso principale stracolmo di macerie, calcinacci, finestre rotte, mobili a pezzi, detriti e rottami sparsi da ogni parte e per poterci passare sopra abbiamo dovuto fare gli equilibristi!

Tutti resti delle moltissime case distrutte: parte dalle bombe degli aerei americani, ma la maggior parte dalle mine dei tedeschi che, prima di lasciare la zona, ritirandosi, avevano deciso di radere al suolo l’intero paese, per non lasciare agli americani nulla che potesse agevolarli in qualche modo.

Infatti avevano cominciato a minare ogni singola casa, una dopo l’altra, fino alla piazza della chiesa, ma poi forse, pressati dagli americani che stavano avanzando, son dovuti fuggire e non sono riusciti a completare l’opera.

Finalmente arrivammo davanti la nostra casa che apparentemente, almeno da fuori, sembrava essere rimasta ancora intatta.

Salendo poi le scale fino al secondo piano, dove noi abitavamo, la prima cosa che ci colpì subito, fu la mancanza della porta d’ingresso, davanti la prima stanza: l’unica rimasta agibile. Ma era completamente vuota: priva di tutti i mobili e di ogni altra suppellettile, sembrava perfino che l’avessero pulita.

Cosa però questa comprensibilissima, per noi, poiché mancavano i vetri a tutte le finestre e il vento in quella casa, aveva sempre fatto da padrone.

Entrammo quindi nella seconda stanza (dove siamo rimasti nascosti ventotto giorni, sperando che gli americani passassero entro un paio di giorni, perché erano accampati a soli cinque chilometri dal nostro paese; invece impiegarono tre mesi, quando eravamo già sfollati a Roma) ed era priva sia di tetto che di pavimento: una bomba l’aveva centrata in pieno, proprio nella parte centrale: sfondando il palazzo fino al piano terra.

Ed era rimasto disponibile e calpestabile, poco più di un metro di pavimento, intorno alle quattro pareti, attraverso il quale, potevamo raggiungere la terza stanza: badando sempre a non mettere il piede sul bordo di quel pezzo di pavimento rimasto, per timore che si sgretolasse, sotto il nostro peso e sprofondassimo di sotto, in mezzo alle macerie!

Perciò, se si guardava in su, si vedeva il sole, il cielo azzurro e qualche passerotto di passaggio: mentre se si guardava in giù, si vedeva un ammasso di macerie, calcinacci, vetri rotti, mobili a pezzi e masserizie di ogni genere, che riempivano tutta la parte bassa della casa.

Un completo disastro!

La terza stanza non aveva subito molti danni.

Aveva due finestre: da una si vedeva la montagna con tutti i suoi splendidi paesini, anche se da lontano.

Invece dall’altra, si vedeva soltanto una traversa secondaria della strada principale del paese, denominata via vecchia, dove però, avevano combattuto e dove erano caduti morti, due poveri soldati, che erano stati semisepolti lì sul posto, ma con troppa fretta: poiché al primo era rimasta scoperta una spalla e all’altro un ginocchio!

Tutto il nostro paese e dintorni è stata zona di vera guerra e di prima linea.

Si è combattuto da ogni parte: nelle campagne, nelle vie, nelle strade, dentro il paese e perfino dentro le case.

Prova ne sia, che vicino la finestra di questa nostra terza stanza, che dà proprio sulla via vecchia: dove sono caduti morti quei due sfortunati giovani soldati; abbiamo trovato ammonticchiati diversi sacchetti di sabbia: sia a destra che a sinistra, della stessa finestra e per terra un gran mucchio di bossoli vuoti: il che stava a dimostrare che da quella finestra avevano sparato con qualche mitraglia o un’arma del genere.

E deve essere stato proprio così.

I giorni che seguirono a questo nostro rientro in paese, fu un periodo veramente duro e problematico.

Perché dovemmo affrontare un tenore di vita a dir poco, catastrofico! Poco cibo, niente acqua e niente luce.

Per fortuna era estate e nelle campagne, sebbene non coltivate da tempo, gli alberi producevano ugualmente la frutta e si mangiava quella.

L’acqua si prendeva dai pozzi, come nei tempi antichi e per la luce, erano pochi i fortunati da avere una candela. La maggior parte si serviva di una lucerna ad olio, ma non certo di oliva!

Era un olio di motore per autocarri o altri tipi di macchine, lasciato in giro dai soldati e si usava quello per alimentare la lucerna: che faceva un fumo nero e puzzolente, anche pericoloso da respirare!

Però l’unica luce era quella e, in caso di necessità, se si doveva fare qualche lavoro di sera, era inevitabile che si respirasse quel fumo, anche se dannoso.

Naturalmente, la mattina ci si risvegliava col naso nero, sia dentro che fuori: ma nessuno se ne preoccupava più di tanto, poiché c’erano altri problemi molto più gravi di quello.

L’unica fortuna era che, stranamente, in quel periodo nessuno si ammalava. (Ancora doveva arrivare la malaria che mise a letto l’intero paese!)

Invece, ciò che maggiormente preoccupava, erano le mine: sparse ovunque! – Ogni giorno si sentiva qualche grossa esplosione e di sera immancabilmente, si conosceva il nome dello sventurato che era saltato per aria!

Questo perché ogni abitante, spinto dall’ impellente necessità di procurarsi del cibo, cercava di ricominciare a coltivare il proprio terreno, per poter sopravvivere, ma le mine erano tante e soprattutto, coperte dall’erba alta; per cui quasi nessuno riusciva a vederle! – Solo dopo diversi mesi arrivarono gli sminatori: ma già erano saltate per aria diverse persone! – Dopo gli sminatori arrivarono anche degli incaricati a raccogliere tutti i corpi dei soldati caduti morti durante i combattimenti, che erano stati sepolti in fretta, male e rimasti anche semiscoperti!

Ogni volta che io e mia nonna andavamo in campagna, passavamo davanti a due piccoli cimiteri, rasente la strada, vedevamo le sagome di questi giovani corpi, coperti da pochissima terra e ci facevano una gran pena, poiché credo, fossero poco più che ragazzi!

Ricordo che questo lavoro di “raccolta corpi” durò diversi giorni.

Quando passavano gli uomini con i sacchi sulle spalle con dentro quei poveri corpi disfatti e sgocciolanti dal tempo e dall’umidità, alcuni dicevano che la malaria che colpì in seguito l’intero paese, era stata provocata da quello sgocciolio di cadaveri putrefatti ed era tutta infezione che si trasformò poi, in quell’epidemia di malaria!

Ma niente di più falso. Poiché La malaria fu dovuta esclusivamente all’impaludamento del Garigliano: fatto di proposito dai nemici del momento, affinché si sviluppasse un’epidemia di malaria che infettasse tutta la popolazione civile che abitava nei paesi lungo la costa: cosa questa che si verificò puntualmente.

Pare inoltre, che gli scienziati tedeschi inventassero anche una zanzara “particolare” capace di fare sviluppare questa malaria. E tutto accadde regolarmente come avevano predisposto e desiderato. (Più soddisfazione di così!)

Se poi sono state solo voci di popolo, non so. Ma noi, purtroppo, abbiamo sperimentato proprio questo: Insieme a mille altri disagi e alla fame!

  1. Prima che si sviluppasse questa epidemia di malaria, si andava in campagna quasi ogni giorno, perché era l’unico posto dove si riusciva a trovare del cibo, come frutta e verdura e perfino “proteine”! Infatti gli steli delle erbe e tutti i fili di paglia erano pieni di lumachine: una razza di lumache molto più piccola delle solite lumache che si conoscono oggi e per “proteine” si mangiavano quelle. Ve ne erano un’infinità: ormai tutte scomparse da un pezzo. Come pure le ranocchie, che prima della guerra, riempivano i fossi, le pescavano, le vendevano ed era un’attività redditizia come quella dei pescatori. Poi, con la comparsa degli anticrittogamici, che hanno avvelenato ogni cosa: sono sparite le ranocchie, le lumachine e altri animaletti simili. E’ stato davvero molto difficile, ricominciare una vita normale! –  Ricordo che una volta, insieme a mia madre, per comprare un chilo di farina di granoturco, siamo andate a Suio: una località distante una ventina di chilometri dal nostro paese e a piedi. Al ritorno, giunte alla base della collina che dovevamo ancora salire, per essere a Tufo, io non ce la facevo proprio più e, appesa al braccio di mia madre, trascinavo letteralmente le gambe!

Fare quaranta chilometri in un giorno, è faticoso per tutti, ma per una ragazzina di undici anni, debole e sempre inappetente, quale ero io a quei tempi, lo è stato ancora di più.

E quella stanchezza così “spropositata” mi è rimasta impressa nella mente e ancora la ricordo.

Intanto cominciava a fare la sua comparsa la malaria che nessuno conosceva.

Era piena estate e di tanto in tanto, arrivavano le prime avvisaglie dei primi compaesani malati.

Tutto aveva inizio con un malessere generale e brividi di freddo: che ben presto si trasformavano in un freddo abnorme, che costringeva i malcapitati a battere i denti, a stringersi e arrotolarsi su sé stessi, per cercare di riscaldarsi e soprattutto per frenare quel tremore diffuso in tutto il corpo, che provocava dolori ai tendini, ai nervi e alle ossa dell’intero organismo e nessuna coperta era sufficiente a riscaldare!

Poi il freddo passava, la febbre aumentava a dismisura e arrivava un caldo insopportabile, con febbre altissima e delirio, che durava due o tre giorni.

Quando tutto sembrava essere passato e ci si illudeva di essere ormai guariti, tutto ricominciava come prima e si ripeteva puntuale, sempre alla stessa ora!

Questo durava diversi giorni.

Tanto che alla fine se ne usciva deboli, pallidi e allampanati, da sembrare dei cadaveri ambulanti!

Io l’ho avuta in modo così grave da rimanere in coma tre giorni e quando tutti credevano che fossi morta, sono ritornata in vita e da quel giorno non mi è più venuta.

Di questi tre giorni di coma, conservo ancora una strana sensazione, che ricorderò sempre.

Mi sembrava che una forza formidabile mi tirasse per strapparmi dal letto sul quale ero, ma io mi opponevo con tutte le mie forze, stringendo i denti e tirando dalla parte opposta, per non farmi portar via.

Quando poi ho sentito che quella enorme forza, aveva mollato la presa e mi aveva lasciato, mi sono risvegliata uscendo dal coma e mi sono ritrovata spossata e stanca!

Ecco, questa è stata la mia più brutta esperienza vissuta durante la Seconda Guerra Mondiale che, spero, non debba più ripetersi per nessuno.

Amelia Ciarnella 4: Ritorno in paese / AMELIA Ciarnella

Il prossimo racconto di Amelia Ciarnella sarà “Dopo il famoso armistizio del 1943”.


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