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Castellammare di Stabia

Da Sud a Sud le nuove rotte della speranza

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Difficile immaginare che l’operazione cui si sottoporrà lunedì prossimo Marco Verratti abbia un legame con i grandi temi della politica e dell’economia internazionale. Eppure il medico che interverrà per risolvere il problema di pubalgia del giovane talento del Paris Saint-Germain è uno dei 125 mila indiani che vivono in Qatar, dove costituiscono circa un sesto della popolazione. Un esempio delle migrazioni Sud-Sud che, quantomeno come flussi, hanno ormai superato quelle Sud-Nord. Eppure è di queste che si parla incessantemente, considerandole il più delle volte come una minaccia, mentre però il mondo intorno a noi cambia.

Il fenomeno è relativamente recente, a lungo concentrato soprattutto nelle petro-monarchie del Golfo, meta di milioni di cittadini del Sud Asia e delle Filippine, ma si è notevolmente allargato negli ultimi anni, estendendosi al resto dell’Asia, all’America Latina e ormai anche all’Africa. Nel 2013, secondo l’Onu, le persone che vivevano al di fuori del proprio Paese di nascita erano più di 230 milioni, di cui un terzo cittadini del Sud in un altro Paese del Sud. Simili le dinamiche dei rifugiati, anche se ovviamente diverse sono le motivazioni. Di fronte ai 5 milioni di siriani che si trovano nei campi profughi in Libano, Giordania, Turchia e Kurdistan, sono quasi poca cosa i numeri di coloro che sbarcano in Grecia o in Italia. Per non parlare poi dei 100 mila eritrei e somali che transitano ogni anno a Gibuti, la cui popolazione è di appena 800 mila abitanti.

Come tutti i flussi migratori, anche quelli Sud-Sud hanno motivazioni diverse ed implicazioni sullo sviluppo, in termini di movimenti finanziari, dinamiche familiari, comportamenti individuali e collettivi. Ad emigrare sono soprattutto lavoratori poco o per nulla qualificati, per esempio per costruire le grandi infrastrutture della Coppa del Mondo che si svolgerà in Qatar nel 2022. Però sono sempre più numerosi anche tecnici e liberi professionisti, alla ricerca di migliori condizioni di vita, o semplicemente di opportunità di crescita professionale che global cities come Dubai o São Paulo sono ormai in grado di offrire, alla stessa stregua che New York o Amsterdam. Nel 2013 sei Paesi asiatici sono stati tra le 10 principali destinazioni di rimesse e per esempio il Bangladesh ha ricevuto più di 16 miliardi di dollari dai migranti, che si trovavano soprattutto in Paesi al di sotto dell’Equatore. Una vera e propria bonanza, che rafforza la bilancia dei pagamenti e può permettere di finanziare gli studi dei figli rimasti in patria, ma rischia anche di pompare i consumi e le importazioni.

Le rotte delle migrazioni mettono però a nudo anche molte ipocrisie sulla solidarietà Sud-Sud, che tradizionalmente si contrapponeva alle relazioni neo-coloniali della cooperazione allo sviluppo. Non c’era certo molta fratellanza tra i 4 mila manifestanti contro le migrazioni che fecero scandalo a Singapore nel 2013 – non in quanto xenofobi, ma perché nella città-Stato le proteste sono rarissime. Unica sottile differenza con i leghisti o i lepenisti, se la prendevano con gli stranieri per il costo delle case e non per la criminalità. Del resto una delle scintille del risentimento è stato l’incidente in cui un giovane cinese ha perso il controllo della sua Ferrari, uccidendo un taxista e il suo passeggero. In Sud Africa invece sono stati la crisi economica e l’esplosione della disoccupazione ad attizzare le micce contro i milioni di africani che ben altra ospitalità speravano di trovare nel Paese di Mandela. Facile immaginarne la delusione quando i politici suoi eredi nell’African National Congress sono stati in prima fila nell’alimentare la paura dello straniero. Ci sono poi stati innumerevoli casi di abusi ai danni di domestiche, soprattutto ma non esclusivamente filippine, nel Golfo e in Asia. Così come di minatori e lavoratori delle costruzioni, per esempio cinesi in Africa, che tra l’altro il più delle volte lavorano per imprese cinesi. E anche nel Paese che ha scelto di massimizzare la felicità e non il Pil, il Bhutan, gli immigrati nepalesi sono vittime di molte discriminazioni.

Di fronte a dinamiche così importanti, rapide e profonde, le politiche faticano ad adattarsi. Difficile che servano quelle che, come in Arabia Saudita, puntano a riservare certi lavori alla popolazione indigena. Servirebbero interventi che, oltre a meglio proteggere i diritti di migranti e rifugiati, sempre a rischio espulsione, riducessero il costo di trasferimento delle rimesse e regolassero i flussi, come in tempi ormai lontani venne fatto tra il Sud e il Nord dell’Europa. I bambini, che in Africa rappresentano un terzo delle popolazioni in movimento, sono vittime di particolari soprusi e meriterebbero una particolare protezione. In ogni caso è evidente che le migrazioni sono una questione globale, che va trattata in tutte le sue manifestazioni e di fronte alle quali anche il Global South deve prendere le proprie responsabilità, magari a partire dal G20 presieduto quest’anno dalla Cina.

vivicentro.it/editoriale/ Da Sud a Sud le nuove rotte della speranza ANDREA GOLDSTEIN

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