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Export vinicolo: come si stanno riorientando le strategie delle aziende italiane

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Le esportazioni rappresentano da tempo un pilastro del vino italiano.In alcuni casi superano il 70% del fatturato delle aziende, in altri sono la chiave per crescere in segmenti di mercato più redditizi e meno saturi.

Ma negli ultimi anni, le dinamiche globali hanno costretto molti produttori a rivedere le proprie strategie.Mutamenti nei consumi, fluttuazioni geopolitiche, crisi logistiche e nuove aspettative dei buyer hanno imposto un cambio di passo.

Per chi vuole comprendere meglio le nuove traiettorie dell’export vinicolo italiano, segnaliamo che esistono contenuti dedicati – ad esempio nella categoria servizi export di Winemeridian, magazine online specializzato nel mondo vitivinicolo – che analizzano tendenze, sfide e scenari nei mercati esteri.Fino a poco tempo fa, l’export era spesso affrontato con una logica opportunistica: un ordine estero, un importatore, qualche fiera di settore e un mercato in più da aggiungere al portafoglio.

Oggi questo approccio mostra i suoi limiti.I mercati sono diventati più selettivi, meno prevedibili.

Serve un modello diverso, più strategico, più strutturato.Le aziende italiane che esportano con successo non si affidano più al caso, ma lavorano su piani articolati che tengono conto di molti fattori: posizionamento, prezzo, logistica, comunicazione, presenza fisica e digitale.

Uno dei cambiamenti più significativi riguarda la selezione dei mercati.L’epoca dell’espansione indiscriminata sembra tramontata.

Sempre più imprese decidono di concentrarsi su un numero limitato di Paesi, ma con una presenza più solida.Una distribuzione capillare ma discontinua non basta più. È preferibile essere riconoscibili in cinque mercati chiave, piuttosto che essere marginali in venti.

Questo implica una maggiore conoscenza delle dinamiche locali, un dialogo costante con gli interlocutori commerciali e un investimento più mirato.La parola chiave è “fidelizzazione”.

I distributori chiedono continuità, sostegno, strumenti per raccontare il prodotto.I clienti finali cercano autenticità, trasparenza, coerenza.

Le aziende che riescono a presidiare il mercato in modo attivo, che formano il personale di vendita, che raccontano il proprio lavoro in modo chiaro, costruiscono relazioni più durature.E queste relazioni sono la vera infrastruttura dell’export.

Un altro ambito che sta cambiando è la gestione dell’offerta.In passato, molti produttori tendevano a proporre all’estero gli stessi vini che funzionavano in Italia.

Oggi si lavora in modo più selettivo.Alcuni prodotti sono pensati specificamente per determinati mercati: packaging adatto, formato differente, comunicazione tarata su gusti e aspettative locali.

La capacità di segmentare l’offerta e personalizzare la proposta è diventata una competenza strategica.Anche la comunicazione ha subito un’evoluzione.

Le cantine più strutturate non si limitano a partecipare a fiere e presentazioni, ma sviluppano contenuti digitali, storytelling, video, materiali in lingua, canali social geolocalizzati.La narrazione non è più un contorno, ma parte integrante della strategia commerciale. È ciò che differenzia un’etichetta da tutte le altre.

Ed è proprio attraverso questo racconto che si costruisce una reputazione nei mercati esteri.Sul piano organizzativo, molte aziende stanno creando o potenziando team export dedicati.

Non si tratta solo di saper parlare inglese o compilare un DDT per l’estero.Servono figure capaci di leggere i dati, interagire con partner internazionali, comprendere i trend, valutare nuove opportunità, prevenire rischi.

In alcune realtà, la funzione export si fonde con quella marketing; in altre, dialoga in modo continuo con l’amministrazione, la logistica e la produzione.In ogni caso, viene sempre più considerata come una delle aree vitali dell’impresa.

La logistica stessa è diventata parte del ripensamento strategico.Con l’aumento dei costi di trasporto e le difficoltà legate alla catena di approvvigionamento internazionale, molte aziende hanno dovuto ridefinire rotte, modalità di spedizione e rapporti con i vettori.

C’è chi ha scelto di accorciare le distanze, chi ha investito in magazzini all’estero, chi ha razionalizzato la rete per contenere i costi e migliorare l’efficienza.Una delle novità più rilevanti è l’integrazione tra export fisico e vendite digitali.

Il canale e-commerce – una volta marginale per il vino – ha assunto un ruolo crescente.Alcune aziende vendono direttamente all’estero tramite piattaforme internazionali o siti multilingua.

Altre si affidano a partner specializzati.In ogni caso, il digitale consente di raggiungere nicchie geografiche o di consumo prima impensabili.

Ma richiede competenze dedicate, gestione delle spedizioni, assistenza post-vendita, e una presenza online coerente.Infine, le nuove strategie export tengono conto anche dei criteri ESG (ambientali, sociali, di governance).

In molti mercati – soprattutto del Nord Europa, del Nord America e dell’Asia urbana – i buyer valutano la sostenibilità delle imprese come elemento di selezione.Vini certificati biologici, packaging sostenibili, cantine con sistemi di gestione ambientale attivi sono sempre più apprezzati.

Non è solo un vantaggio reputazionale, ma un vero e proprio requisito per entrare o restare in determinati circuiti di distribuzione.Il vino italiano ha dimostrato di saper competere con successo nel mondo.

Ma per continuare a farlo serve capacità di adattamento.Oggi esportare non significa solo spedire bottiglie, ma saper leggere mercati in trasformazione, investire su relazioni di valore, adattare i messaggi, lavorare sulla logistica, misurare l’impatto.

Le aziende che stanno riorientando la propria strategia in questa direzione sono anche quelle che stanno costruendo le basi per un posizionamento più solido, coerente e lungimirante.

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