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Saviano: “In fuga dalle bugie” – ROBERTO SAVIANO

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a mia generazione era costretta a spostarsi da sud a nord per studiare e lavorare.Oggi l’unico tentativo possibile per migliorare la vita è andarsene, mentre il nostro governo canta vittorie effimere

Renzo piano le definisce “le città del futuro”, ma le periferie sembrano essere, oggi, gli spazi meno compresi dal governo e, visto il risultato del referendum sulla Brexit, non solo dal nostro.

Non più solo quartieri ai margini della grande città, oggi sono definibili periferia interi paesi che si sviluppano ai margini delle città. Intere province diventano periferia dei capoluoghi, delle metropoli. Questa evoluzione postmoderna rende assai più complesso identificarle, parlarne, comprenderne le dinamiche. “Il governo perde in periferia”: questa è stata l’analisi finale dell’ultimo voto amministrativo in Italia (e non solo dell’ultimo). E si può dire lo stesso valutando i risultati del referendum sulla Brexit, dal momento che a votare Leave sono state soprattutto città e paesi che spesso si considerano decentrati rispetto a quelli che vengono percepiti come centri nevralgici. L’Europa ha perso nelle periferie e le periferie sono di gran lunga più vaste dei centri.

Questo corto circuito è la naturale conseguenza di un errore che i governi spesso commettono senza nemmeno rendersene conto: credere che uno storytelling positivo possa essere di per sé sufficiente al mantenimento del potere e delle posizioni acquisite, quello stesso racconto di sé che ormai viene percepito come menzognero, niente altro è che insopportabile propaganda. Può sembrare strano che in un momento così complesso si stia qui a ragionare di parole e narrazione, ma il gravissimo errore del governo Renzi è stato proprio quello di ignorare le province, di ignorarle al punto tale da non comprendere che proprio da lì sarebbe arrivato il fallimento. Hannah Arendt diceva che la democrazia è il luogo dove è la parola che convince: non è più la lama a costringere o la punizione a obbligare, lo strumento di decisione è la parola. E, in un certo senso, la narrazione di un’Italia che si era ripresa, di miracolosi sforzi che in tempi brevissimi avevano già portato a miglioramenti epocali, ha costituito per le periferie un inganno insopportabile.

La mia generazione era costretta a spostarsi dalle periferie al centro, da sud a nord per studiare e per lavorare. Era un centro, quello, inteso anche come centro della vita. Oggi questo centro si è spostato e l’unico tentativo possibile per migliorare la propria vita è andare all’estero, mentre il nostro governo canta vittorie effimere a fronte di questa emorragia, e non spende una parola su quanto sia impossibile trovare lavoro in periferia, sugli sforzi titanici per portare a casa uno stipendio da fame e sullo sfruttamento cui spesso chi lavora è soggetto. Questo contrasto narrativo è aggravato dal fatto che le periferie sono consapevoli di essere la parte attiva del territorio. Da qui la rabbia e la rivolta. Sanno di essere il luogo di raccolta del denaro, pompato dalle periferie al centro. La periferia napoletana e quella romana pompano lavoro e denaro criminale al centro della città. Anche la periferia torinese pompa forza lavoro al centro della città. Ma la contrapposizione centro-periferia genera conflittualità che non possono essere considerate solo di ordine culturale. Il disagio sociale vero e proprio trae linfa dalla frustrazione creata dall’alto tasso di disoccupazione e da un cambiamento irreversibile del mercato del lavoro che a fronte di una flessibilità crescente non è riuscito ad assorbirne forza lavoro. La conseguenza più dolorosa è che il bacino di forza lavoro offerto dai migranti viene visto come uno spazio sottratto al lavoratore italiano destinato a restare disoccupato. Il corto circuito nasce proprio da questa contraddizione: la periferia ha la ricchezza del lavoro, dei figli, degli spazi, ma questo capitale non resta lì, non è lì che viene investito, viene calamitato dalla forza centripeta delle città. E così le periferie, da “città del futuro”, sono di fatto diventati aborti.

Le periferie sono orrende, si dirà, eppure la bruttezza dei luoghi può diventar fascino attraverso la partecipazione e la cura. Ecco perché il progetto di Renzo Piano sulle periferie (da lui chiamato G124 dal numero della stanza che occupa in Senato) è fondamentale per il nostro paese e lo sarebbe per l’Europa tutta. Il progetto ha l’obiettivo di rendere i luoghi “deboli” spazi di sperimentazione e interesse. Ripartire dalla gradevolezza, da nuove ipotesi di bellezza. Provare a respingere la schifezza abitativa. È prassi reale come lo sono i sogni nutriti dall’ossessione della trasformazione. Ma non bisogna lasciare che sia solo un esperimento bello, un tentativo di rammendo. Deve diventare affare di stato. Centralità ossessiva delle pratica della poltica. Sino a ora invece al disastro delle periferie italiane si fa fronte con grandi operazioni di carità sociale, con il sostegno massiccio ad associazioni di vario genere, con roboanti operazioni di immagine (una su tutte la fallimentare idea di tenere le scuole aperte anche pomeriggio e sera: uno spazio fatiscente al mattino lo è anche nel resto della giornata).

Ma l’aspetto forse più allarmante di questo racconto forzatamente positivo è che innesca un meccanismo populista. Con “populista” — aggettivo abusatissimo che andrebbe utilizzato con immensa cautela — intendo tutte quelle soluzioni proposte con leggerezza pur sapendo che non si realizzeranno mai. È stata la forza, per esempio, di tutta la politica di Luigi de Magistris. In centro a Napoli si spara, è un dato di fatto, il controllo da parte delle organizzazioni criminali sul centro storico è ormai totale. Eppure soltanto la bellezza della città è da attribuire ai suoi amministratori, mentre le morti, la paura, la mancanza totale di sicurezza sono da imputare al sistema capitalista e alla miseria.

Come possa la politica sottrarsi a queste responsabilità è solo questione di comunicazione, di storytelling appunto, una narrazione alimentata da chi, cinicamente, ritenendo che nulla possa davvero cambiare sale sul carro del vincitore. Questo meccanismo si basa su una furbizia uguale e contraria a quella del governo: il racconto rovesciato nel quale la negatività viene mostrata, la contraddizione viene svelata, ma ci si sente perennemente non responsabili. Sindaci incaricati delle città si discolpano come se fossero capi rivoluzionari in balìa di poteri a loro esterni e loro nemici.

Il governo avrebbe dovuto evitare la grancassa del miglioramento e tematizzare i disastri e le difficoltà per affrontarli. La periferia non può essere luogo di approccio romantico: se hai talento, sarai più bravo del ragazzo o della ragazza privilegiata nati in centro perché avrai voglia di riscatto e quindi ce la farai. Fesserie. Queste sono le favole à la Saranno Famosi che non sono più sostenibili in un’Italia in cui la mobilità sociale è pressoché immobile, in cui la meritocrazia rimane utopia, in cui non esiste riciclo di potere.

Ecco perché la narrazione politica del “daremo l’università gratuita per tutti”, del “distruggeremo i poteri forti”, è in fondo il risultato di approcci sempre identici e ormai plurisecolari che non fanno i conti col principio di realtà. Risuona in loro il sempiterno contrasto tra massimalismo — idee meravigliose con realizzazioni impossibili e spesso derive autoritarie — e riformismo, ossia un modello di trasformazione graduale, senza romanticismo e fiammate di riscatto universale ma sostanzialmente inattuabile. Per questo motivo Turati è la lettura che consiglierei ai dirigenti del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle che si riconoscono in una tradizione riformista. Turati diceva di non confondere il gradualismo con l’eccessiva prudenza, ma che gradualmente le cose vengono davvero cambiate: non prudentemente, per non pestare i piedi a opinione pubblica e aziende, ma con criterio e realismo.

In periferia il Pd muore perché ha utilizzato questi territori come luoghi di facile estrazione di voto di scambio. Un voto un favore. Eppure, i dati lo mostrano, i giovani sono sfuggiti a questa logica e hanno votato candidati che non avrebbero potuto (per ora) prometter loro nessun favore e non avevano alcuna clientela. Su questo M5S e de Magistris hanno puntato.

La centralità delle periferie non è nelle promesse né nelle opere “sociali”, ma in una sfida che è vitale: rendere le periferie luoghi in cui si vuole rimanere, comprare casa, investire. Certo, il cambiamento, quello vero, richiede tempo, impegno, dedizione, pazienza e costanza. Ma è esattamente dalle periferie che può arrivare l’unica rinascita possibile del nostro paese.

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