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Castellammare di Stabia

La paura del sisma senza fine

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L’ultimo sisma, che ieri ha colpito cento comuni tra Umbria e Marche, ha seminato tra gli italiani la paura del sisma senza fine. Quello che sta accadendo sull’Appennino viene definito «contagio sismico», un fenomeno già osservato in Turchia e California, che produce danni a cascata. Quello che sta accadendo sull’Appennino viene definito «contagio sismico», un fenomeno già osservato in Turchia e California, che produce danni a cascata: Cinque terremoti in 67 giorni – I sindaci parlano di una «migrazione epocale»

L’infinito contagio sismico che scuote l’Appennino

Un fenomeno già osservato, dalla Turchia fino in California E in Italia c’è il caso della Calabria sconvolta nel Settecento

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n «contagio» sismico. Molto probabilmente quello che sta accadendo in Appennino centrale è simile a una propagazione laterale della sismicità, fatto che produce danni a cascata, feriti e paura.

Se si tratta, come dicono i dati del Cnr, dell’attivazione di altri segmenti della stessa struttura complessa che ha generato il terremoto di Amatrice, allo scarico della zona cosiddetta «ipocentrale» ha corrisposto un carico sui frammenti laterali della faglia stessa. Sono questi frammenti a essersi rotti e ad aver generato gli ultimi terremoti. Il contagio sismico è un fenomeno già osservato in altre regioni, come in Turchia, in California e ad Haiti.

In questo caso il terremoto si è spostato da Amatrice prima verso Nord, nell’area di Visso e Ussita, e da lì, ieri, nuovamente verso Sud, ancora a Norcia, dove il primo terremoto si era già arrestato. Il contagio può avvenire dopo anni o decine di anni, ma anche dopo giorni o mesi, come sembra stia accadendo. La propagazione laterale favorisce una serie di terremoti forti, ma non fortissimi: se i segmenti della faglia si fossero mossi insieme, si sarebbe potuto generare un terremoto di magnitudo almeno 7,0 Richter.

Mario Tozzi: “Non si possono escludere scosse anche più forti”

Secondo i dati Cnr-Ingv, tutto il settore è sprofondato di circa 20 cm. Ed è sempre vero che non siamo in grado di prevedere l’evoluzione dei fenomeni: scosse di replica via via meno energetiche che durano mesi o altre scosse molto forti a distanza di tempo.

Se quella di questi giorni è una vera crisi sismica, quella che colpì la Calabria, a intermittenza, per quasi un secolo, fra 1702 e 1783, resta la più impressionante sequenza di terremoti che abbia finora colpito il nostro Paese. Ogni cosa fu distrutta, dall’abitazione al podere, dalle borgate alle manifatture; ogni cittadina e città, da Bagnara, a Scilla, da Reggio a Messina. Si formarono 52 laghi a causa delle frane che bloccavano i corsi d’acqua, le case precipitavano nelle voragini, le colline scendevano a valle «come zattere sul mare in tempesta» e si aprivano fratture: una, a Plaisano, era visibile per 8 chilometri e aveva la profondità di un abisso di 75 metri. Tutta la Calabria precipitò verso il basso. Quella tempesta sismica si tramutò in una crisi che fiaccò un intero popolo. Una specie di paralisi che lasciava intorpiditi i calabresi, anche nella mente: molti si lasciarono morire. La crisi del Meridione comincia anche da lì.

Ma non è stato quello di Reggio Calabria e Messina del 1908 il sisma più forte mai accaduto in Italia? Sicuramente il terremoto del 1908 sullo Stretto, in associazione con lo tsunami, è stato quello che ha provocato più vittime e danni: a un secolo di distanza non si conosce con esattezza il numero dei morti (forse oltre 80 mila); a Messina rimasero in piedi 2200 abitazioni su 8 mila, a Reggio 176 su 3600. Questa resta la catastrofe d’Italia, la presa di coscienza di una realtà nazionale fatta di rischi e costruita su un territorio vulnerabile.

Il rischio sismico in Calabria è forse il più elevato d’Italia, ma non è quello il posto più pericoloso della Penisola. Non è corretto parlare di Big-One dalle nostre parti, prima di tutto perché non c’è una grande faglia come quella di San Andreas in California. Ma, se c’è un luogo indiziato per il terremoto-record, quel posto è Catania. Il sisma del 1693 è stato il più forte di quelli mai avvenuti in epoca storica in Italia, con una magnitudo, calcolata a posteriori, 7,5 Richter (nel 1908 nello stretto è stata calcolata a 7,1) e con circa 12 mila vittime su una popolazione di 19 mila. In tutta la Sicilia orientale i morti furono 54 mila e lo tsunami successivo raggiunse i 15 metri di altezza ad Augusta. Le scosse di replica durarono tre anni. Siccome dal punto di vista costruttivo le cose non sono migliorate in tre secoli e la fragilità è semmai aumentata, un terremoto come quello, oggi, ucciderebbe forse 160 mila catanesi su 300 mila. Un’ecatombe generata non tanto dalle faglie del blocco siculo-ibleo (una microplacca incastrata nella collisione Africa-Europa) quanto dal fatto che solo il 5% delle costruzioni potrebbe reggere a un simile urto.

Per il resto tutta la dorsale appenninica è ad elevatissimo rischio sismico, come ci ricordano i terremoti di Avezzano (1915), L’Aquila (2009) e Irpinia (1930, 1962, 1980). A questi vanno aggiunti il Gargano e il Friuli: in pratica solo Sardegna e Murge sono immuni dai sismi. Neanche Roma può dirsi al sicuro e certo non è immune perché «vuota sotto». E ora registra danni sparsi. La capitale non ha una sismicità propria, ma risente dei terremoti vulcanici dei Castelli Romani e di quelli dell’Appennino, soprattutto quelli dell’Umbria-Marche, noti fino dal tempo dell’Impero. E le catacombe e le voragini non la salverebbero certo, vista la percentuale irrisoria di sottosuolo davvero «vuoto». Anche in questo caso i danni dipendono solo da come sono costruite le case, non tanto quelle antiche, visto che i monumenti hanno retto bene a 2 mila anni di risentimenti, ma soprattutto quelle costruite malissimo, quasi sempre in cemento armato, fra gli Anni 50 e gli Anni 80. E dipende da quanto non si è intervenuto in manutenzione o si è intervenuto male in ristrutturazione, eliminando tramezzi e indebolendo gli edifici.

Conta anche dove si è costruito: una gran parte della città poggia sui vecchi depositi fluviali del Tevere e dei suoi affluenti (come la Basilica di San Paolo, chiusa per il sisma, o quella di San Lorenzo), terreni in grado di amplificare le onde sismiche e produrre danni anche cospicui. Come si vede bene al Colosseo, dove una parte dell’anfiteatro mostra crolli nelle volte degli archi: è quella porzione che poggia sui sedimenti di un piccolo lago formato dal rio Labicano, oggi cancellato dalla via omonima. Il lago fu prosciugato da Nerone per seppellirvi i resti dell’incendio e rimase così una zona di debolezza geologica che amplificò il terremoto del 1349, producendo i danni che osserviamo ancora oggi. Cause e concause che mettono in crisi sismica l’intera Italia centrale.

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