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Da un remoto villaggio della Siria sino allo Studio Ovale. Ecco la soffiata sui piani dell’Isis che ha mandato in tilt l’intelligence di mezzo mondo. E ora il tema sarà centrale al G7

NEW YORK – Da una città della Siria al tavolo del G7 in Italia, passando per l’Ufficio Ovale. È il percorso accidentato che ha compiuto la soffiata sui piani dell’Isis per usare i computer come bombe sugli aerei, che dopo la rivelazione fatta dal presidente Trump ai russi rischia di compromettere i rapporti tra i servizi di intelligence degli alleati mediorientali e occidentali. Infatti verrà discussa nei prossimi giorni dai responsabili del settore, a margine degli incontri preparatori del vertice del G7 di Taormina.

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’informazione era stata raccolta in una città della Siria, che il «Washington Post» non ha rivelato per non fare danni alle operazioni americane contro il Califfato. Il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster però ha detto che è stata scoperta nell’ambito di operazioni in corso già note, e quindi non è difficile intuire da dove può essere venuta. La capitale Raqqa è naturalmente nel mirino come prossimo obiettivo dell’offensiva anti Isis, ma anche dai combattimenti per riprendere Mosul sono emerse notizie rilevanti sui piani del Califfato. Il servizio di intelligence che ha ricevuto la soffiata appartiene ad un paese alleato del Medio Oriente, e anche questo non è stato rivelato per non compromettere i rapporti con la nazione interessata, e la rete di spionaggio che lavora per tutelare la sicurezza di tutti. Ma i governi amici della regione che hanno la capacità di operare sul terreno si contano sulle dita di una mano, e quindi non è complicato presumere chi possa avere penetrato gli ambienti dell’Isis. Alcuni alleati hanno una posizione più delicata di altri, perché ad esempio la Giordania vive una condizione di instabilità generata dall’arrivo in massa dei profughi, mentre i suoi tradizionali rapporti di collaborazione con la Gran Bretagna creerebbero un corto circuito ancora più problematico per Washington. Israele però è stato confermato come la fonte, complicando la visita che Trump farà il 22 e 23 nello Stato ebraico.

La soffiata è stata passata dal Mossad alla Cia, che l’ha inserita nel suo rapporto quotidiano che fa al capo della Casa Bianca. Secondo McMaster, però, i dettagli sulla fonte e sui metodi che hanno consentito di raccogliere l’informazione non sono stati neppure rivelati a Trump, anche perché in questi casi si cerca di proteggere il presidente dai rischi collegati al fatto di conoscere troppo. Per lui era sufficiente sapere che l’Isis voleva usare i laptop come armi, come in Somalia nel 2016, e quindi autorizzare le discussioni per vietarli non solo sugli aerei in arrivo dal Medio Oriente, ma anche su quelli in partenza dall’Europa verso gli Stati Uniti.

Durante l’incontro nell’Ufficio Ovale con il ministro degli Esteri russo Lavrov, avvenuto il 10 maggio scorso, il capo della Casa Bianca ha pensato di condividere questo allarme, nel corso delle conversazioni sul terrorismo. Lo ha fatto un po’ per vantarsi dell’efficienza americana, e un po’ per cercare di migliorare la relazione con Mosca, e convincerla a collaborare nella lotta al terrorismo scaricando Assad. Il problema è che i meccanismi di comunicazione nel settore dell’intelligence non sono questi. Come prima cosa, il servizio israeliano non voleva che l’informazione fosse passata ad altri. Poi, anche se Trump non ha rivelato le fonti e i metodi con cui è stata raccolta, ai servizi russi può bastare quello che ha raccontato a Lavrov per capirlo. E quindi cercare di compromettere la rete informativa, visto che il Cremlino ha già una forte presenza militare sul terreno in Siria. Più grave ancora è il rischio che i dettagli arrivino all’orecchio dell’Isis, perché ciò non solo potrebbe spingere il Califfato ad accelerare gli attentati in preparazione, ma metterebbe a rischio la stessa vita di tutte le fonti alleate nel suo territorio, non solo quelle israeliane in Siria, ma anche in Iraq o in Libia.

Questa è la ragione per cui il Mossad ha minacciato di interrompere le comunicazioni, seguito poi ieri anche dai servizi europei e della Nato. Per continuare a collaborare vogliono la garanzia che simili episodi non si ripetano, e questo è stato il lavoro più difficile fatto dal consigliere anti terrorismo di Trump, Tom Bossert, dopo aver saputo che il Washington Post aveva ricevuto il «leak» e stava per pubblicare la notizia: contattare i colleghi e limitare i danni. Nell’ambito del G7 italiano ora ci saranno altre occasioni per discutere al massimo livello, per contenere il danno e continuare la lotta comune al terrorismo.

vivicentro.it/cronaca
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lastampa/L’intrigo a Washington e il cortocircuito degli 007 PAOLO MASTROLILLI – INVIATO A NEW YORK

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