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Castellammare di Stabia

Tra Andria e Corato la tragedia che non “poteva” accadere

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La nostra modernità non contempla tragedie ANTONIO SCURATI

Tragedie – Ci siamo illusi di poter mettere fine a ogni incidente. Istintivamente collochiamo lo scempio in un luogo remoto

«Dov’è mia figlia, vi prego, fatemela vedere».

U

na madre barcolla tra le corsie di un ospedale terremotato dal disastro. Il suo mondo all’improvviso è finito. Spera con tutta se stessa nel corpo pulsante, nel sangue vivo da ferita, nella vita cruda e verde dell’infanzia, ma è a tal punto disperata che si sazierebbe anche del corpo morto. Purché glie la facciano vedere.

Questo confine impalpabile tra la speranza più fervente e la disperazione più atroce, questa linea scritta a matita tra la vita e la morte, questo è quel che si dice “tragedia”. Solo quando si abbatte su di noi capiamo quanto, nel nostro tempo, la parola sia abusata. La impieghiamo per vegliardi trapassati nottetempo nel proprio letto, vi facciamo ricorso per nominare modesti danni patrimoniali causati da periodici crolli di borsa, la sprechiamo con vergogna perfino per un ottavo di finale perduto ai calci di rigore. Non vi è una sola creatura vivente che, alla fin della fiera, quando si arriva proprio in fondo in fondo, non sia un dilettante della morte. Eppure, noi che viviamo al principio del XXI secolo in Occidente, sul versante esangue della storia, sembriamo non raccapezzarci più, sembriamo quasi non capirla, o fingiamo di non saperlo più fare. Siamo diventati degli idioti della morte.

Frastornati dalle centinaia di quotidiane stragi mediatiche, cinematografiche, televisive, internettiane, siano esse filmate da superbi registi, da telecamere di sorveglianza a circuito chiuso o da giovani madri e compagne sedute sul sedile del passeggero, e, al tempo stesso, gioco forza – bisogna pur continuare a vivere – sostanzialmente indifferenti a esse, quando veniamo raggiunti dalla notizia dell’ennesima morte di massa, perfino quando le sue immagini ci scorrono davanti agli occhi, ci smarriamo.

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Istintivamente collochiamo lo scempio in un altrove remoto. Iraq, Messico, Bangladesh, ci diciamo. Snoccioliamo i grani del rosario dello spettatore blasé della sofferenza altrui. Poi aguzziamo la vista e leggiamo con più cura la notizia: «Scontro di treni tra Andria e Corato». Allora cadiamo nel disorientamento totale. Ma come, ci chiediamo l’un l’altro increduli, il treno non era il mezzo di trasporto più sicuro? Ma come, protestiamo, una catastrofe in provincia di Bari?! Ecco che, allora, sommando in un rapido conto della serva tutte le recenti notizie di carneficine inattese sulla soglia di casa, ci scopriamo inermi, vulnerabili, esposti in ogni centimetro del nostro corpo alla minaccia violenta. Ecco che anche questa del 2016 diventa l’estate del nostro sgomento. E dimentichiamo che noi, donne e uomini nati in Occidente dopo la fine della seconda guerra mondiale, siamo il pezzetto di umanità più agiato, sano, longevo, florido, sicuro e protetto che abbia mai calcato la faccia della terra.

Questo crampo mentale lo si deve, senz’altro, all’ingorgo psicologico prodotto dalle alluvioni di morti mediatiche. C’è, però, anche una ragione più profonda, più antica: siamo le vittime di una delusione epocale. Ad averci delusi è niente meno che la modernità. L’epoca che si era aperta sotto l’insegna delle magnifiche sorti e progressive, che si era impegnata a fondo in un progetto capillare di previsione e controllo, che si era votata all’ingegneria della società e del mondo, che si era lasciata guidare da rivoluzionari, profeti e statisti, che aveva venerato prima gli esploratori degli angoli sperduti del globo terracqueo, poi gli scienziati scopritori dei vaccini antipolio e sempre i poeti che ne avrebbero eternato le imprese, la modernità che aveva promesso la fine di ogni incidente. Ci ritroviamo, a valle di tutto questo, a idolatrare maestri del brodetto di pesce, a votare senza nessun entusiasmo modesti amministratori di condominio (nella migliore delle ipotesi) e a leggere di madri ipermoderne e iperistruite che, girata la ruota del progresso, arrivano nelle metropoli d’Occidente a non vaccinare i figli in ossequio ai ciarlatani d’internet. A un tratto, allora, in queste estati del nostro scontento, nonostante la razionalità delle scienze statistiche ci dica il contrario, ci sembra che l’insicurezza sia orbitale, la tragedia quotidiana, che tutto sia un incidente.

Il premier, accorso sul luogo del disastro, ha promesso che «sarà fatta chiarezza». Benissimo. È una promessa in linea con quelle della modernità che ci siamo lasciati alle spalle. A patto che venga mantenuta. E per mantenerla c’è solo un modo: la serietà deve fronteggiare la tragedia, l’impegno di tutti deve sublimare lo sgomento, la lotta per migliorare il mondo deve sostituirsi allo sconforto di fronte al suo disastro. C’è solo un modo per liberarci dall’incubo lisergico dell’incidente totale. Prima piangere i morti con sincera compassione, sentire che sono morti al nostro posto sui sedili in similpelle di quel modesto treno di pendolari lungo la tratta tra Andria e Corato, e poi riprendere il progetto della modernità. Sentirci ancora parte attiva di quella severa, grandiosa impresa collettiva che si proponeva di mettere fine a ogni incidente. Un’impresa che non avrebbe mai tollerato la sopravvivenza, nel luglio del 2016, di un binario unico sulla linea tra Andria e Corato.

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