La presidente della Federal Reserve Janet Yellen non pensa di dimettersi dopo l’elezione di Donald Trump: «È mia piena intenzione restare per l’intero mandato». E sfida il neo presidente difendendo la legge Dodd-Frank: «No all’abrogazione della riforma della finanza».
Yellen sfida Trump: “Sulla politica monetaria la Fed non cambia linea”
La numero uno della Banca Centrale: “Non mi dimetto”
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eri Yellen ha tenuto una testimonianza davanti al Congresso, la prima dopo le presidenziali. Durante la campagna elettorale Trump l’aveva definita «altamente politicizzata», l’aveva accusata di tenere il costo del denaro basso per favorire Hillary Clinton, e aveva dichiarato che intendeva sostituirla. Il candidato repubblicano per attirare consensi aveva puntato molto sulle condizioni «disastrose» dell’economia americana, che per definizione implicano un cattivo lavoro della Fed, di cui aveva promesso la riforma. I parlamentari quindi le hanno chiesto se pensa di dimettersi prima della fine del suo incarico, cioè il 31 gennaio 2018, ma lei ha risposto così: «È mia piena intenzione servire l’intero mandato». Quindi ha difeso la legge Dodd-Frank contro gli abusi della finanza, e ha messo in dubbio i piani economici del nuovo presidente: «Quando ci sarà più chiarezza, valuteremo l’impatto. Le cose potrebbero andare molto diversamente». Invece ha rivendicato i successi del suo mandato e dell’amministrazione Obama, sottolineando che il Paese cresce, la disoccupazione è scesa al 4,9%, e nelle ultime settimane diversi dati hanno indicato che gli Usa sono su una traiettoria positiva. Una realtà molto diversa da quella dipinta da Trump, che lascia presagire un aumento dei tassi vicino, probabilmente già durante la prossima riunione della Banca centrale in programma il 13 e 14 dicembre.
In teoria i mandati dei capi della Fed, come quelli dei direttori dell’Fbi, sono sfalsati dalle elezioni presidenziali proprio per garantire loro l’indipendenza. Trump però potrebbe spingere per le dimissioni di Yellen, provocando un braccio di ferro molto dannoso per la stabilità economica. Se invece aspettasse la fine naturale del mandato per sostituirla, dovrebbe governare per il primo decisivo anno con una banca centrale non allineata. Alla fine Yellen verrebbe sostituita, ma pagando un prezzo, mentre ora i mercati hanno reagito bene alle elezioni e il dollaro è salito ai massimi degli ultimi 14 anni.
Il problema è che il programma economico di Trump è sempre stato abbastanza vago, e non condiviso dai repubblicani ortodossi. Il presidente eletto propone forti riduzioni fiscali, soprattutto per le imprese, una riforma del sistema e delle aliquote che favorisca il rimpatrio dei circa 2 trilioni di dollari parcheggiati all’estero dalle multinazionali, la cancellazione o revisione di Obamacare, un piano di investimenti da un trilione di dollari per le infrastrutture. Su questi punti il consenso dei repubblicani è abbastanza unanime, e la benedizione è venuta anche da Arthur Laffer, inventore dell’omonima curva su cui Reagan aveva basato la sua politica fiscale e la supply-side economics. Meno convinto invece è l’appoggio per il protezionismo e la denuncia dei trattati commerciali, perché secondo il liberismo repubblicano la globalizzazione è un sistema favorevole agli interessi americani. Lo stesso premier giapponese Abe ieri è corso a New York per incontrare Trump, e persuaderlo a cambiare posizione su questo aspetto. I democratici potrebbero sfruttare tali incertezze per appoggiare le idee di Donald meno popolari nel Gop, provocando imbarazzi, e accompagnare ciò con una battaglia contro la Fed rischierebbe di danneggiare i risultati economici fin dall’esordio.
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