La campagna elettorale del magnate – spiega Gianni Riotta – è finita, ma Trump aizzando i suoi sostenitori, negli uffici e nelle fabbriche con i salari dimezzati, è come un virus che avvelena l’America.
L
a pietra al collo finale il capo carismatico di una crociata populista come l’America non vedeva dai tempi dell’antisemita padre Coughlin, predicatore radio Anni 30, se l’è messa da solo, dicendosi «Non certo» di accettare la sconfitta contro Hillary, perché teme brogli alle urne.
In 240 anni di storia americana il valore comune più solido, che ha tenuto perfino alla vigilia della Guerra Civile – 620.000 morti, 2% della popolazione -, è la transizione di potere incruenta, senza rivolte o sangue in strada, così rara in Cina. Trump, con la dichiarazione brutale, senza i filtri del suo ormai smobilitato staff, si mette fuori da questa tradizione, dalla conversazione civile della nazione e chiude l’avventura. La «correzione» di ieri, quando si dice pronto ad accettare il voto «solo se vinco io», alza ancora il tiro e introduce un tono eversivo, autoritario, che strizza l’occhio alla sua base che ammira Putin, Xi Jinping e Erdogan, perché «in tempi di crisi il dispotismo funziona meglio della democrazia che non decide mai».
Eppure Trump non era partito male nel terzo e ultimo faccia a faccia. Era stato disciplinato sul messaggio, no ad aborto e riforma sanitaria, aveva piazzato un paio di battute, aiutato dal moderatore Wallace del canale conservatore Fox. Hillary replicava in difesa e quando si è appellata alle donne, sulle molestie sessuali di cui è accusato il rivale, è apparsa sincera e appassionata. Sulla «no fly zone» in Siria, l’area che nessun jet potrebbe sorvolare fermando l’assedio di Putin ad Aleppo, è stata strategica, dopo la stagione attendista di Obama. E ha azzerato l’ingenuo entusiasmo liberal dei suoi elettori, prodighi di premi Pulitzer e Oscar per l’ondata dei leaks online, affermando «Putin è la fonte di Wikileaks», come provano anche le ultime rivelazioni del professor Thomas Rid.
Qui Trump abbandona ogni pretesa di stile, distruggendo 162 anni di aplomb repubblicano, dalla fondazione il 20 marzo 1854 all’avvento della sua zazzera paglierina. Si imbizzarrisce, minaccia da gradasso di non esser «sicuro di accettare i risultati» e voler «tenere viva la suspense». La reazione dell’establishment Usa, destra e sinistra, con l’eccezione di Reince Priebus, presidente del partito repubblicano ormai ridotto a lacchè di Trump, è unanime, solenne, tradita solo da un filo eccessivo di melodramma. I neoconservatori legati all’ex presidente G.W. Bush, Bill Kristol e Max Boot per esempio, pensano che Trump infetti l’America di «fascismo». Con più raziocinio e minor foga partigiana Obama accusa Trump di «piagnucolare».
Il golpe in America non ci sarà, la notte di martedì 8 novembre Donald Trump non marcerà su Washington, alla testa delle sue camicie multicolori, non alzerà barricate sulla V Avenue con commando di guerriglia. Brontolerà, passerà all’incasso con show tv e radio, un libro, il tour delle università di destra, suo genero è già al lavoro per creare questo franchising.
La ferita che Trump infligge alla democrazia Usa non sta nelle sue future reazioni, ma nel cieco aizzare il rancore profondo dei suoi sostenitori, nei bar rurali, nelle scuole professionali, negli uffici e nelle fabbriche con i salari dimezzati, gente armata, delusa, repressa, con veri motivi di amarezza. Esercito di descamisados dell’era digitale cui Trump offre la bandiera per ogni estremismo. Lui vivrà comunque al sicuro, nelle suite con marmo e divani kitsch, rimuginando sulla carica degli astenuti capace di salvarlo in extremis. Il virus tossico che ha liberato: «Solo se vinco il voto vale» avvelenerà a lungo il Paese e la democrazia.
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