Al Filarmonico di Verona rivisitazione di “Matrimonio Segreto” convincente per le musiche ed il canto dentro una regia un po’ scanzonata
Verona, un “Matrimonio Segreto” di Domenico Cimarosa, anticonformista e irriverente
Spettacolo ambivalente quello cui abbiamo assistito in questa prova veronese. Resa musicale più che gradevole nella cornice di una regia un po’ spigliata, un po’ anticonformista e un po’ irriverente nel tentativo di voler essere sbarazzina. Il regista Marco Castoldi (Morgan in arte) sicuramente ha voluto svecchiare un’opera del ‘700 cercando di attualizzarla. Ma è sempre un rischio che può portare allo stravolgimento di un capolavoro. Quando si prende in mano un libretto ed una partitura, quell’unicum che si chiama opera, si ha il dovere di far rivivere quello che librettista e compositore hanno concepito e creato. La regia ricrea le atmosfere che l’opera suggerisce, inventando scene, danze e costumi. Quando si oltrepassano queste colonne d’Ercole c’è il rischio di stravolgerne il messaggio. Stavolta in scena circolava troppa sensualità che sfiorava l’erotismo in certi passaggi ed in certi atteggiamenti e crediamo che non era intenzione del Cimarosa né del librettista Giovanni Bertati. La vicenda si articola su due matrimoni, uno d’amore – al di là delle condizioni sociali – ed uno di interesse – immerso totalmente nelle convenienze sociali. Le due sorelle sono l’archetipo di due personalità opposte: una tutta sentimento (Carolina) ed una tutta interessata di salire di classe sociale (Elisetta). Ma di erotismo platealmente esibito il libretto non ne fa cenno.
Scenografie minimaliste di Patrizia Bocconi, uniche per i due atti, che nel fondale scenico rappresentavano lo spaccato di una casa ed offrivano la possibilità ad una schiera di figuranti ed inservienti di scena di nerovestiti di fare una serie ininterrotta di evoluzioni salendo e scendendo scale. Proscenio vivacizzato da coloratissime poltrone rococò, spostate alla bisogna di volta in volta.
Luci di Paolo Mazzon che hanno ravvivato la scena sempre identica con effetti cromatici suggestivi e cangianti.
Costumi moderni, di un modernariato indefinito, curati da Giuseppe Magistro. Dei sei personaggi in scena, tre vestivano un abito bianco vistosamente quadrettato in nero; molto vivace c’è da dire. Gli altri tre vestivano in scuro uniforme. Gran mostra di giarrettiere e gonne quasi inguinali per la Elisetta, intrappolata nel ruolo di affamata di marito. Un omaggio al ‘700, infine, sono state le parrucche che tutti i personaggi indossavano. Ma invece di essere le candide parrucche incipriate, erano vaporosi batuffoli, con spruzzi coloratissimi sgargianti.
Il versante musicale è stato di buona riuscita. Il giovane maestro ventiquattrenne, il veronese Alessandro Bonato, ha diretto l’ottima orchestra a stabilire un equilibrato connubio con i giovani cantanti guidandoli con diligenza costante e puntuale. Senza mai lasciarli soli. Solo nei brani sinfonici si è dedicato completamente alla buca cavandone coloriture orchestrali di gradevole efficacia.
L
’impalcatura canora dell’opera poggia su tre voci maschili (baritono, basso e tenore) e tre femminili (2 soprani ed un mezzosoprano).
Il basso siciliano Salvatore Salvaggio dotato di una voce calda e generosa, piacevolmente modulata, ha interpretato un Geronimo pacioso ed accattivante, molto apprezzato dal pubblico.
Il baritono sardo Alessando Abis, ha dato vita ad un Conte Robison frivolo e manieroso, che entra in scena con sussiego preceduto da un ottetto di fiati come una maestà imperiale. Ha cantato con voce rotonda e ben dosata.
Rosanna Lo Greco ha dato vita ad una Elisetta litigiosa e vogliosa di maritarsi cantando in modo più che convincente.
La zia Fidalma è stata impersonata dal mezzosoprano Irene Molinari, che ha cantato con buon registro canoro e disegnato in modo appropriato la vedova inquieta.
Paolino, il tenore Matteo Mezzaro e Carolina, il soprano Veronica Granatiero, han dato vita ad una travagliata coppia di sposini cantando con nitore.
Numerosi e generosi applausi sia a scena aperta che a fine spettacolo da parte di un teatro pieno ma non gremito.
Questo capolavoro della musica italiana del ‘700 non merita sì crudele oblio, è una delle opere meno rappresentate nei teatri italiani. A Verona non si rappresentava dagli anni ’20 del secolo scorso. Adesso viene “ripescato” quasi a far atto di doverosa ammenda, ma lo spettacolo andato in scena in questi giorni è la riproposta di un allestimento del 2011, a cura del Teatro Coccia di Novara. È pur sempre qualcosa, ma ci auguriamo che in una delle prossime stagioni la Fondazione Arena possa – generosamente – programmare un nuovo allestimento originale, filologicamente più aderente, che riesca a valorizzare il capolavoro del “nostro” Cimarosa per come merita.
A chiosa finale è da rimarcare il calore con il quale il pubblico ha applaudito il comunicato che il personale del Filarmonico ha diffuso via fono ad inizio spettacolo, in segno di solidarietà e di vicinanza al Teatro Massimo Bellini di Catania che vive ore incresciose di crisi e di rischio di chiusura.
Eccone il testo diffuso: “Il personale del teatro Filarmonico esprime vicinanza ai colleghi del Teatro Vincenzo Bellini di Catania che vedono seriamente compromessa la prosecuzione delle attività musicali nel loro antico e prestigioso teatro, con la conseguente perdita di decine e decine di posti di lavoro e di professionalità di altissimo livello. In accordo con l’articolo 9 della Costituzione che promuove lo sviluppo della cultura e promuove e tutela il patrimonio artistico della nazione facciamo appello a tutte le forze politiche ed economiche della Sicilia e dell’Italia intera perché questo omicidio culturale venga scongiurato. Il Teatro Bellini non deve chiudere.”
La recensione si riferisce allo spettacolo del 3 novembre 2019.
Carmelo TOSCANO
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