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Castellammare di Stabia

VERONA: singolare allestimento dell’ OTELLO verdiano

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Inserire in cartellone l’ Otello è un atto di omaggio alla maturità artistica di Giuseppe Verdi, che compone questo capolavoro dopo 16 lunghi anni di silenzio compositivo. Certamente, in questo lasso di tempo, il Maestro ebbe modo di metabolizzare la lezione wagneriana, senza per questo farsi imprigionare nella sua originale creatività, anzi permettendo ad essa di dispiegare le ali anche alle correnti innovative della musica del suo tempo.
Spesso il male non viene dal di fuori, ma dal di dentro di noi stessi; è dentro di noi. In modo oscuro e cavernoso scaturisce da noi stessi, dal nostro inconscio insondato e, talvolta, insondabile. L’Otello di Shakespeare e di Verdi scandaglia queste dinamiche dell’animo umano, dove odio ed invidia, amore e morte si fronteggiano ed intrecciano in modo imprevedibile.
Talora in modo tragico. La nota vicenda di Otello (il Coraggio, la Gelosia) e Desdemona (il Bene), fra i quali si incunea Jago (il Male), ne è un classico paradigma. Otello si dibatte tra il bene ed il male, ed alla fine soccombe travolto dal confliggere dei suoi sentimenti.
Al Filarmonico la scena si apre con un doppio velario di un bel blu mare: il primo raffigura i segni dello zodiaco tra i quali si scorge l’Idra di Lerna, cagione di non fausto presagio; ed il secondo velario reca una scritta difficilmente decifrabile; scopriremo poi essere una citazione da Shakespeare, a sottolineare l’odio di Jago per il Moro. Peccato che lo spettatore non abbia potuto cogliere l’effetto scenico in modo immediato anziché mediato dalla lettura della brochure.
Inoltre il doppio velario ha impedito di apprezzare visivamente appieno la cabaletta iniziale dell’«Esultate!»..
Molto di effetto scenico la innumerevole flottiglia di velieri rossi sapientemente ondeggiati dai piccoli coristi dell’A.LI.VE. Voci bianche in coro, ottimamente preparate da Paolo Francicani.
Suggestive le scene, sobrie ma alquanto funzionali, allestite da Edoardo Sanchi. Il cubo girevole, con pareti interne di esagoni raggiati e dorati, è invenzione molto fascinosa.
Belli e di effetto i costumi di Silvia Aymonino. Di fogge e stili diversi ma che nel complesso riescono ad armonizzarsi in un unicum conchiuso.
Il motore di tutta l’azione è Jago, che è personaggio complesso assai: egli è un perfido malvagio, per natura ed infatti di se stesso dice: “Son scellerato/perché son uomo”. Egli è mefistofelico nell’animo, ma con “disonesta dissimulazione” lo maschera col sorriso e l’urbanità dei suoi modi. Sorride, abbozza, ma non ride. Il librettista Boito,  di lui così annota: “con Otello apparisce bonario, riguardoso, devotamente sommesso”. Ma non gli fa certo il giullare, se non vuol perdere credibilità. La sua innata malvagità, unita all’odio e all’invidia, faranno precipitare i due  innamorati verso la trappola tragica del finale. Il baritono bresciano Ivan Inverardi canta in modo soddisfacente, da accreditato interprete verdiano quale egli ormai è. Tuttavia l’interpretazione scenica non è riuscita a rendere la complessità del personaggio. Egli è giovane e sicuramente avrà modo e ha talento per eccellere.
Otello è anch’esso un personaggio non facile. Entra in scena da eroe e ne esce da relitto umano.
Un eroe, un innamorato, un assassino? Tutte queste cose insieme fanno di lui un infelice, che alla fine uccide e si uccide. La tragedia greca che rivive. Personaggio non facile da interpretare perché richiede  buona vocalità  ed una  grande abilità scenica; ed evitare, inoltre, il rischio di scadere nel caricaturale a causa del trucco: per il color della pelle e per il rosso esagerato delle labbra (“un selvaggio dalle gonfie labbra”, lo definisce Jago). Il tenore lituano Kristian Benedikt ha offerto una buona performance nel canto mentre nella recitazione lo avremmo preferito un po’ più solenne e meno teatrale. Egli, tuttavia, è reduce da un centinaio di interpretazioni di Otello, di buon livello. Quindi questa rondine non fa certo primavera.

D

esdemona è l’angelica vittima della tragedia, personaggio sublime che vive per amore e che per amore muore, scagionando fino alla fine il suo assassino. Il soprano veneto Monica Zanettin ha dato vita ad una Desdemona dolce ed elegante, nel canto e nel portamento scenico. Struggente il finale del terzo atto, quando la sua solitudine esistenziale viene sottolineata dal velario che la separa dalla scena principale. Ed ormai consapevole della sua tragica fine, si sveste e depone i gioielli che l’adornavano.
Bravi ed egualmente meritevoli i comprimari: Giovanni Bellavia (un araldo), Nicolò Ceriani (Montano), Romano Dal Zovo (Ludovico), Alessia Nadin (Emilia) e Francesco Pittari (Rodrigo).
Maestoso, superbo e sempre all’altezza il coro areniano diretto da Vito Lombardi.
Fantasiosa la regia di Francesco Micheli ripresa da Giorgia Guerra, seppure con qualche scelta opinabile, per esempio quella dei demoni che compaiono nelle scene più drammatiche a distrarre il pathos, più che ad intensificarlo; ma, opinabile tra tutte, quella della “resurrezione dei morti” finale. Ci sembra un voler forzare la mano alla filologia del testo. Anche se, a soluzioni simili, abbiamo già assistito sia in “Romeo e Giulietta”, che nel “Don Giovanni” mozartiano.
Antonino Fogliani dirige l’orchestra della Fondazione Arena di Verona con riconosciuto talento, mettendoci passione; al punto che in certi passaggi le sonorità orchestrali adombravano il canto.
Complessivamente spettacolo di buon livello, molto gradito dal pubblico che non ha risparmiato sottolineature di gradimento a scena aperta e nelle prolungate, calorose ovazioni finali, alle quali di buon grado ci siamo uniti.

Carmelo Toscano

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