Al Filarmonico va in scena «L’Elisir d’amore» pensato per la campagna bergamasca e delocalizzato nelle sconfinate praterie USA, coltivate a mais
VERONA: al Filarmonico va in scena «L’Elisir d’amore» in versione yankee
Donizetti nel 1832 musicò «L’Elisir d’amore» in poche settimane, pensandolo ambientato nella pianura della sua campagna bergamasca; il librettista Felice Romani lo trasferisce in un villaggio dei paesi baschi alla fine del XVIII secolo ed il regista Pier Francesco Maestrini lo delocalizza in America, negli USA, in versione yankee. Ma proprio yankee della campagna profonda delle sconfinate praterie, dove ci sono distese di mais, strade assolate e qualche stazione di servizio di tanto in tanto.
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iene a perdersi, così, quell’atmosfera agricola, serena e distesa, dove la vita scorre placida con ampie soste per parlare con gli altri e con se stessi. La regia ha, invece, scelto di catapultare tutta la vicenda, nella frenesia americana. Ci troviamo proiettati sulla epica Route 66, dove è ubicato il saloon di Adina, che da un enorme insegna campeggiante sul fondale scenico, offre ai viaggiatori il classico pollo fritto. E ne consegue che il suo spasimante, Nemorino, sia vestito da…pollo per attirare i clienti. La scena è spesso stipata all’inverosimile di comparse, di saltibanchi, ginnasti, monaci buddisti di arancio vestiti, soldataglia esuberante che mostra i muscoli, drappelli di ragazze che esibiscono gambe ed ombelichi generosamente.
Tutti mimano numeri che polarizzano l’attenzione e spesso distolgono dalla musica e, talvolta, anche dal canto. Non si coglie l’aspetto allegorico di metamorfosi alchemica che la vicenda propone, nella quale tre personaggi si evolvono gradatamente da uno stadio all’altro: Adina, dall’indifferenza della civettuola arriva all’amore consapevole; Nemorino dalla sfiducia in se stesso, perché povero ed illetterato, evolve nella sua autostima, di uomo onesto e costante negli affetti; Belcore, da spaccone chiassoso e focoso evolve in fuoco di paglia che presto si esaurisce. Dulcamara, è l’unico personaggio che non subisce metamorfosi nello svolgersi della vicenda, da ciarlatano imbonitore si presenta e tale rimane fino alla fine.
Le scene di Juan Guillermo Nova, prevedono un rialzo a metà palco dove avviene il grosso della movimentazione scenica e coreografica, compresa una grossa vettura decappottabile a bordo della quale fa il suo ingresso spettacolare il dottor Dulcamara. Presenti anche gli immancabili arredi a base di toro meccanico, pompa di benzina, cartelloni pubblicitari. Costumi in pieno stile country di Luca Dall’Alpi. Le luci, sempre ben congegnate, dell’ottimo Paolo Mazzon. Verrebbe voglia di definire il tutto una “americanata”, ed invece lo spettacolo nel suo complesso offre una sua godibilià che a prima vista non gli daresti. Riesce a farsi accettare per quel che è, pur con tutti i distinguo cui abbiamo accennato.
L’aspetto musicale ha visto la massiccia presenza del coro, ottimamente preparato da Matteo Valbusa, e l’orchestra diretta da Ola Rudner.
Laura Giordano, soprano palermitano, offre una performance canora con voce fluida e vellutata ed una presenza scenica spigliata, rendendo una Adina sensuale, civetta ma non ochetta.
Francesco Demuro, tenore sardo, seppure costretto nel suo goffo costume da pollo ha dato vita ad un Nemorino credibile e dignitoso, con una voce possente e sempre ben modulata. L’aria di “Una furtiva lacrima” provoca piogge di applausi, prolungati e convinti; ma nessuna richiesta di bis è arrivata, come alla prima è avvenuto.
Salvatore Salvaggio, basso agrigentino, è un animale da palcoscenico perfettamente a suo agio nel ruolo dell’imbonitore simpatico e buontempone Dulcamara, con un canto fluente ed una bravura tecnica irreprensibile, sia nella melodia che nei recitativi ritmati, sparati a raffica vertiginosa con assoluta padronanza.
Il baritono cinese Qianming Dou è Belcore, che interpreta con piglio da sergente dei marines piuttosto che da miles gloriosus, spaccone e sbuffone. Canta in modo credibile.
La soprano catanese, Elisabetta Zizzo, ha ben cantato e ben recitato nel ruolo di Giannetta. Merita di più di un ruolo da comprimaria.
Il tema musicale della sinfonia del secondo atto è stato “arricchito” da quattro mimi che danzavano a sipario chiuso, sviando l’attenzione di uno dei pochi momenti esclusivamente strumentali di un’opera. La sinfonia è un pezzo esclusivamente musicale, che rende protagonista assoluta l’orchestra e tale deve restare. Senza orpelli che, a nostro avviso, distolgono e distraggono.
Pubblico numeroso e caloroso, che tributa applausi a scena aperta e, generosamente, al finale.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 21 Novembre 2019.
Carmelo TOSCANO
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