O
ggi ammettiamo una sconfitta. Nove mesi dopo la pubblicazione in prima pagina della foto di Aylan, il piccolo migrante siriano annegato sulla spiaggia di Bodrum, la strage continua.
Non sappiamo quanti anni aveva, se abbia fatto in tempo ad avere paura, e neppure come si chiamasse il bambino cullato in quest’immagine, in un’ultima ninna nanna. «L’ho visto in acqua, pareva una bambola», ha spiegato Martin, il soccorritore tedesco che lo ha raccolto. «Ho avvicinato a me il corpo come se fosse ancora in vita, ha disteso le braccia, le piccole dita nell’aria. Il sole ha illuminato i suoi occhi, brillanti, teneri, immobili». Non siamo in grado di dire nemmeno se i suoi genitori si siano salvati. «Ho cominciato a cantare per consolare me stesso», prosegue Martin. «Per cercare di dare una qualsiasi espressione a un momento incomprensibile e straziante».
Il corpo del piccolo è stato consegnato alla nostra Marina insieme con altri 25 cadaveri, tra i quali quello di un altro bimbo, recuperati dall’organizzazione di volontari Sea-Watch. Centotrentacinque i superstiti portati in salvo a Reggio Calabria. La scorsa settimana sono annegate più 700 persone nel braccio di mare tra la Libia e L’Italia. Dal 2014 le vittime sono oltre 8 mila.
Ma il viaggio non è che la prima tappa. Perché si può morire in modo insensato anche se si vive a Torino, in Italia, in una famiglia di rifugiati ghanesi, come è accaduto ieri nel quartiere Barriera di Milano a Henry, un mese di età. Anche quando ci scorrono a fianco, le vite dei migranti e le nostre sono mondi paralleli, a tenuta stagna, che entrano in collisione, in comunicazione, solo quando c’è una tragedia: in questo caso una circoncisione effettuata in casa, la febbre alta, una dose di paracetamolo troppo forte da sopportare per chi ha quattro settimane di vita.
L’anno scorso, quando morì Aylan, scrivemmo che quella foto era l’ultima occasione per vedere se i governanti europei fossero all’altezza della Storia. E per ognuno di noi la possibilità di fare i conti con il senso ultimo dell’esistenza. L’immagine portò con sé polemiche, anche se la maggioranza dei lettori ci scrisse che aveva capito la scelta. Non volevamo voltarci dall’altra parte, rifiutammo di far finta di nulla. Alcuni, come lo scrittore Antonio Scurati, non solo ritengono sia stata una decisione sbagliata, ma pensano che foto di questo genere contribuiscano ad anestetizzarci, ci consentano un’emozione passeggera che ci dispensa dall’agire davvero per rimuovere le cause di tanto dolore: «L’esperienza che si fa, a livello di consumo di massa, di guerre, pandemie, crisi umanitarie», afferma nel suo ultimo saggio, Dal tragico all’osceno, «rientra in quella diffusissima cultura del diniego che consente a tutti noi di restare inerti di fronte alle immagini del dolore trasmesse ogni giorno dai mass media, e ai nostri governi di negare le loro responsabilità di fronte agli orrori».
A giudicare da quel che è seguito ad Aylan, la pubblicazione di quello scatto ancora non è servita. Ma non ci rassegniamo. Continueremo a testimoniare, a raccontare. Sono morti innocenti. Che almeno non siano invisibili.
@massimo_russo
vivicentro.it/editoriale – lastampa/Un’altra sconfitta. Ma i morti innocenti non siano invisibili MASSIMO RUSSO
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