L’analisi. È legittimo spostare l’attenzione dal caso al contesto all’Egitto del Generale Sisi.
span style="color: #252525; font-family: Arial, 'Helvetica Neue', Helvetica, sans-serif; font-size: 16px; line-height: 23px;">NO, non è stato un incidente stradale a stroncare, al Cairo, la giovane vita di Giulio Regeni. Lo sosteneva fino a poche ore fa la versione ufficiale della polizia, ben presto confutata dalla magistratura locale e dagli atroci particolari di quello che è un barbaro delitto.
- Italia-Egitto, una crisi che non deve dividere STEFANO STEFANINI*
Giulio è morto a seguito di ferite da arma da taglio, bruciature, contusioni e il suo corpo è stato buttato in un fossato. Sarebbe azzardato tentare una ricostruzione di quello che può essere avvenuto, ma va detto subito che le modalità del crimine permettono di escludere che si tratti di un episodio di criminalità comune, come una rapina trasformatasi in omicidio. Da quella ferocia traspare invece l’odio, la volontà – che può essere solo politica – di punire una trasgressione o una intromissione in spazi proibiti. Giulio conosceva bene l’Egitto, lo amava, aveva molti amici, uno dei quali avrebbe dovuto incontrare su Piazza Tahrir, il luogo emblematico della protesta del 2011.
Vogliamo saperne di più: lo chiede una famiglia devastata dal dolore, ma lo chiede anche un Paese che si occupa, e si preoccupa, della sorte dei propri cittadini ovunque essi si trovino. Ci vorrà tempo, e speriamo che le contraddizioni immediatamente emerse fra le versioni delle autorità egiziane non siano il presagio di un insabbiamento, di una confusione in cui l’inefficienza burocratica potrebbe intrecciarsi con la volontà di non arrivare a una risposta. Ma già è possibile fare qualche riflessione.
In Egitto la violenza contro gli stranieri è drammaticamente nota, dagli attacchi con bombe e kalashnikov a gruppi di turisti al recente attentato che ha portato all’esplosione in volo di un aereo russo in partenza da Sharm el-Sheikh. Azioni il cui scopo è quello di chiudere un flusso di visitatori da tutto il mondo che per l’Egitto riveste un’importanza vitale. Sono stati certamente dei terroristi a mettere non molto tempo fa la bomba al consolato italiano al Cairo, ma i terroristi non se la prendono con uno straniero isolato, a meno che non si tratti di rapirlo e chiedere un riscatto.
Ripetute denunce di Ong per i diritti umani sia egiziane che internazionali permettono di formulare un’ipotesi più credibile. Vi si parla di numerosi episodi di sequestro, da parte di forze di sicurezza, di persone che vengono torturate per poi essere in alcuni casi rinviate a giudizio, di solito con l’accusa di terrorismo, mentre in altri casi le detenzioni rimangono clandestine e gli arrestati rimangono a lungo nella condizione di “desaparecidos” o vengono ritrovati morti.
L’Italia ha legittimamente chiesto di potere affiancare gli investigatori egiziani per dare risposte credibili a questi angosciosi interrogativi, ma in attesa di chiarimenti che purtroppo potrebbero tardare, è legittimo spostare la nostra attenzione dal caso al contesto in cui questa atroce morte si è verificata: l’Egitto del presidente Sisi. Dopo la delusione delle speranze suscitate dalla Primavera Araba, che proprio in Egitto aveva prodotto gli effetti politici più significativi, con la caduta di Hosni Mubarak, il timore del caos – un caos in cui trova spazio e alimento l’offensiva del jihadismo radicale – ha portato un po’ tutti, americani ed europei (compresi noi italiani) a decidere che tutto sommato era meglio tornare a un passato antidemocratico e repressivo capace di garantire, con l’avvento di un regime stabile, la nostra sicurezza e i nostri interessi economici. Lo chiamiamo realismo, ma lo è davvero?
In Egitto si reprimono nello stesso tempo i sostenitori dei Fratelli Musulmani e i giovani liberali che cercano di preservare spazi di libertà e di pluralismo. Ci si deve però chiedere quanto a lungo sarà sostenibile un potere che non è nemmeno una riedizione dell’autoritarismo di Mubarak, spesso mediato da forme di consenso e inclusione, ma è ormai un regime di militarismo puro. Stabilità regionale, sicurezza e interessi economici sono certamente fattori da tenere presenti nel quadro della nostra politica internazionale, ma si dovrebbe evitare di definire le nostre politiche sulla base del breve termine e della rimozione di un ragionamento serio sulle prospettive anche a medio termine. È giusto essere realisti e incoraggiare, in Medio Oriente e Nord Africa, governi che sono ancora largamente autoritari, ma che non sono costretti, per mantenersi, a puntare su una feroce e indiscriminata repressione – governi che dovremmo cercare di accompagnare in un percorso graduale che dovrebbe tendere a rendere stabilità e democrazia finalmente compatibili. Governi, per intenderci, come quelli di Marocco e Giordania.
Dopo il colpo di Stato del Generale Sisi, all’inizio salutato da molti che constatavano l’inettitudine del governo dei Fratelli Musulmani e ne temevano le intenzioni, l’Egitto si è invece incamminato senza mediazioni su una strada radicalmente diversa in cui la violenza tende sempre più a costituire l’unico terreno della politica creando un contesto in cui aumenta il rischio per tutti – egiziani e stranieri – di diventare vittime.
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