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Un cattivo presagio: e se questo Dalai Lama fosse l’ultimo? (Raimondo Bultrini*)

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’attuale Dalai Lama con Mao Tse Tung nel 1954 (Getty)

Una copertina del “New York Times” con i suoi abiti funereamente svuotati. Dichiarazioni del fratello, e anche sue, che fanno pensare a un addio della tradizione secolare. Alla fine avrà vinto la Cina?

BANGKOK. La domanda circola di web in web come un mantra himalayano tra i fedeli e i simpatizzanti del Tibet disseminati ormai nel mondo virtuale più che nelle valli degli altipiani. Ci sarà un prossimo Dalai Lama? E, eventualmente, dove vivrà, sotto quali spoglie tornerà sul Pianeta il prossimo erede di questa antica stirpe di 14 reincarnati che per la prima volta nella storia troverà al suo posto un «concorrente» eletto politicamente dalla Cina? L’attualità è che nei giorni scorsi l’ottantenne Sua Santità Tenzin Gyatso è partito quasi d’improvviso dalla residenza indiana di Dharamsala per volare in America a operarsi di prostata. Subito la preoccupazione è tornata a montare, smorzata dalle assicurazioni che non c’è da allarmarsi. Tra le persone del seguito autorizzate a prendersi cura di lui, c’è una mia vecchia conoscenza, il più giovane dei fratelli del Dalai lama, Ngari Rimpoche. A sua volta un reincarnato, o tulku, l’ex lama da tempo ha rifiutato il titolo e ha ripreso il suo nome di Tenzin Choegyal per sposarsi e fare figli che gli hanno dato dei nipoti, mentre lui sovrintende alla gestione di una guest house, scrive e insegna occasionalmente cultura tibetana.

Choegyal è un uomo dalla franchezza adamantina, i cui modi schietti e diretti talvolta gettano scompiglio nella cerchia di attendenti e funzionari dell’Ufficio privato del XIV Dalai Lama sia a Dharamsala che all’estero. Tutti sanno infatti che ha un posto particolare nel cuore del fratello maggiore, e una volta mi confidò che, secondo certe profezie, gli è capitato e capiterà ancora di trovarsi vicino a Sua Santità, anche se nega di avere certezze assolute su queste sequenze di vite che nel buddhismo si interrompono solo con l’illuminazione finale.

È un fatto che, come suo fratello e la quasi totalità dei tibetani, abbia bevuto il buddhismo dal latte della madre. In particolare la genitrice in questione, Diki Tsering, ha partorito nove bambini morti prematuri e sette figli vivi, dei quali ben tre, incluso Ngari Rimpoche, sono stati riconosciuti come reincarnazioni di importanti capi di monasteri e yogi dagli speciali poteri. Si dice che questi tulkupossiedano una mente talmente allenata dalla meditazione a restare vigile e presente che non li spaventa nemmeno il momento in cui questa si stacca dal corpo per entrare nel lungo e inquietante periodo del bardo, la fase tra morte e rinascita durante la quale si prepara la prossima forma di vita.

Nessun tibetano considera il tipo di rinascita come un semplice caso. Lo vede invece come il frutto di azioni e attitudini passate, visto che ognuno è artefice del proprio destino o karma individuale. «Vuoi sapere chi eri» diceva il Buddha «guarda chi sei adesso, vuoi sapere chi sarai, guarda ciò che fai adesso».

Quinto nato della fortunata mamma, Lhamo Dondup venne portato via 76 anni fa dal minuscolo villaggio dell’Amdo per essere messo sul trono centrale dell’immenso Potala di Lhasa, dove hanno vissuto gran parte dei Dalai Lama. A quel tempo Pechino aveva già probabilmente intenzione di controllare in un modo o nell’altro la reincarnazione del XIII, che all’inizio del 1900 aveva osato dichiarare per iscritto l’indipendenza  del Tibet e cacciato i rappresentanti cinesi da Lhasa. Quando inizia l’avventura moderna del XIV di questa serie, diventato un Nobel della Pace nonché l’esule più famoso del mondo, il giovane Tenzin Choegyal non era ancora nato (ha 67 anni, 13 meno del fratello). Ma oggi nessuno ha dubbi che sia lui la persona al mondo più vicina all’uomo spinto dal destino a guidare un popolo dall’esilio (indiano) senza che la sua gente possa nemmeno tenere una sua foto in casa, perché rischia l’arresto o peggio. E nella Corte del Dalai non è mai sfuggita l’influenza reciproca. Se il giovane è discepolo del Dalai durante le funzioni religiose, il leader spirituale dei tibetani ammira e per certi versi segue le idee «rivoluzionarie» del fratello. Anche perché cresce l’ipotesi che questo sia l’ultimo Dalai Lama. Fotografata dalla copertina del New York Times Magazine: i suoi paramenti ritratti senza un corpo dentro, con effetto quasi macabro.

L’immagine ha mandato su tutte le furie uno dei paladini del buddhismo tibetano in Occidente, il professor Robert Thurman, decano della Columbia e primo monaco occidentale ad essere stato ordinato personalmente da Sua Santità molti anni fa, prima di smonacarsi e dare al mondo la celebre Uma. «Il settimanale fa di tutto» ci dice «per cercare di rendere l’intera causa tibetana senza speranza, una causa persa, e incolpare la vittima per la sconfitta». Del resto lo dice lo stesso fratello minore, parlando confidenzialmente con il giornalista indiano Pankaj Mishra: «Saremo tutti finiti quando Sua Santità non ci sarà più». Thurman, che conosce bene la schiettezza di pensiero di Tenzin Choegyal e la apprezza, pure non condivide una visione che, secondo lui, «cade nel punto di vista sbagliato cinese, secondo il quale basta aspettare la dipartita dell’attuale XIV per far scomparire improvvisamente il problema tibetano. Ma questo non succederà mai»…

* larepubblica / Continua sul Venerdì del 26 febbraio

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