L
a cosa più spaventosa del terrorismo sta nel fatto che non te lo puoi togliere di dosso, continua: la strage di un gruppo di persone può esaurirsi in pochi minuti.
Ma l’effetto non termina per questo, prosegue, si moltiplica come un’eco.
La distruzione cala silenziosamente su di te come da corde di seta. Siamo prede. La guerra non convenzionale che ci hanno dichiarato è all’interno dei nostri Stati, li fraziona e li divide. L’attentato si muove nel senso inverso della guerra: come il martirio, come la guerriglia, sempre dai margini e lentamente verso il cuore dello Stato. È una questione di uomini e di terre, il terrorismo è un ritorno alla sanguinosa esplorazione dei margini. Più sono percorsi e più il riflusso dell’onda verso il centro è violento. Come noi superstiti viviamo l’assenza degli uccisi? Noi viviamo in un tempo sospeso.
E’ possibile pensarci con distacco, separare queste vicende Parigi, Bruxelles, Istanbul, Dacca, dalla nostra vita reale? Io non credo. Ne siamo tutti toccati. Si finisce sempre per guardare per cercare brandelli di notizie di luoghi in cui siamo stati, delle persone che abbiamo conosciuto. Il veleno è entrato in noi, agisce, si insinua, corrompe. Come esprimere cosa si prova? E’ una sorta di attrazione fatale, il dolore per tutto ciò che abbiamo perduto in questo tempo di caos, sedersi in un caffè senza guardarsi attorno, attraversare una strada, andare ovunque nel mondo, fare la fila all’imbarco di un aeroporto; una stanchezza dello spirito che si nutre di filmati proiettati e riproiettati mille volte. Tentiamo di raggiungere il pulsante per spegnere l’apparecchio: ma non ci riusciamo. Perché non c’è. L’hanno preso altri, gli Assassini.
Ho attraversato luoghi in cui il terrorismo aveva colpito. Tutto era di nuovo a posto, accuratamente cancellate le tracce. Eppure provavi la sensazione nuova che quel luogo fosse sostanzialmente diverso. Notavi la vivacità, l’allegria esagerata sui visi delle persone, sembravano le prime ore di una festa. Era semplicemente l’effetto di ritrovarsi ancora vivi. La stessa sensazione che ti prende quando hai superato indenne un bombardamento.
Il califfato ha cambiato il mondo ahimè, quello che ha invaso e occupato, e quello che minaccia con i suoi innumerevoli gruppuscoli di morte. Puoi ritornare a casa dopo una assenza e non appena la porta si è rinchiusa, è come se non si fosse mai partiti. Accadeva fino a ieri: era il nostro mondo, l’occidente, con i suoi guai e le sue storture, ma familiare, consolidato, confortevolmente e abitudinario. Oppure puoi ritornare dopo poche ore e ogni cosa è tanto mutata da sentirti estraneo, e questo è quello che ci è accaduto, che sta accadendo.
Le grandi parole restano lì sospese nell’aria, califfato fanatismo vendetta, ma tutto si riduce semplicemente a centinaia di assassini. E’ lì la domanda, tremenda, e, forse, la risposta. Perché il demonio (ma anche dio) si sono sempre serviti di persone banali, futili, insignificanti per i loro scopi. Quando se ne serve dio si pronuncia una parola vuota, nobiltà. E quando se ne serve il demonio, ecco pronunciamo un’altra parola vuota: malvagità. Ma il materiale in entrambi i casi è sempre e soltanto quello, la stupida, meschina, assassina mediocrità umana. La principale caratteristica di questi uomini del jihad non è tanto il fanatismo, la monomania, quanto la paura di sprecare il tempo. Il tempo porta il segno della irrilevanza finché non si compie il suo terribile ordine: uccisione e morte.
Quanto è inadeguata la nostra conoscenza del male! Per uccidere i jihadisti di Dacca hanno usato il coltello, sgozzare è infatti il modo che usano per segnarsi. Ma poi hanno filmato i cadaveri avvolti dalle pozze di sangue e se stessi. Perché? Perché quando il Califfato ha rivendicato il massacro potesse utilizzare quelle immagini. E’ la trasposizione planetaria delle esecuzioni dei poveri ostaggi di Raqqa. La violenza di massa ha bisogno di organizzazione, una operazione di sterminio prolungata come quella dell’islamismo radicale richiede grande pianificazione e grandi obbiettivi. E’ un mezzo che permette di approdare a un nuovo ordine e l’idea di questo ordine, per quanto criminale, deve essere semplice e al tempo stesso assoluta. Per chi si accinge a uccidere un gruppo di innocenti la sete di sangue è sicuramente di aiuto. Ma non basta: coloro che hanno progettato e eseguito carneficine come questa devono nutrire la ferma volontà di vedere morte le proprie vittime, averne un desiderio talmente forte da trasformarsi in una necessità. Ora quelle immagini sono lì, davanti a noi, esposte allo sguardo nella loro intimità. Cosa dobbiamo fare? Guardarle? Sappiamo che quei cadaveri, e i loro assassini, resteranno con noi per sempre. E allora sì: vogliamo restarne segnati.
Un capo jihadista siriano, Abu Omar, mi raccontò la prima volta in cui aveva ucciso in quel modo. Mi raccontò il calore che sentiva allo stomaco e intorno agli occhi guardando i condannati e la loro angoscia mortale, stramazzavano, strisciavano, ricadevano, si inginocchiavano per invocare pietà. Spiegava che era sempre stato un uomo qualunque, ma quando aveva visto un uomo strisciare e mendicare la vita aveva avuto la sensazione di diventare un altro più forte e più potente, aveva sentito il proprio sangue scorrere e visto allargarsi l’orizzonte. Il piccolo commerciante Abu Omar era diventato ad un tratto arbitro di vita e di morte, si era trovato tra le mani l’onnipotenza. Una acuta ebbrezza lo aveva invaso finché, poi, la lama aveva cominciato a scorrere sulla gola della vittima, il sangue schizzare… ecco: ora questi uomini lottano risoluti nel buio: al di là del bene…
vivicentro.it/opinione lastamla / Perché i carnefici filmano il Male DOMENICO QUIRICO
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