Il libro di Alessandro Gazoia, “Giusto Terrore” (Il Saggiatore), indaga le ragioni profonde del sentimento del nostro tempo. Un terrore che arriva da lontano e diventa politica, gesto quotidiano e immaginario collettivo
Dopo la prefazione che segue potrete leggere un estratto dal libro di Alessandro Gazoia Giusto Terrore. Storie dal nostro tempo conteso (Il Saggiatore, 2018) in cui, in quest’epoca di attentati e follie continue che tanti lutti portano alla nostra società, e tanto terrore alimentano (l’ultimo atto di follia ieri, in Germania), si riflette sulla natura tra realtà e finzione del terrorismo e dell’ossessione di questi nostri tempi.
PREFAZIONE
In Giusto terrore Alessandro Gazoia sfida l’oscurità a rivelare il suo volto: piega le barriere tra fiction e realtà per restituire ogni sfumatura all’abisso e compiere una vertiginosa discesa verso il fondo, guidata dal solo timone della scrittura. Il suo è un assalto al cuore della più grande paura dell’Occidente.
Giusto terrore: il verbo si fa carne, la carne si fa corpi. Alcuni corpi si fanno proiettile, altri si fanno polvere. Un sentiero di morte, comparso dal nulla e nel nulla diretto, che tuttavia da lungo tempo incrocia le nostre strade. Ma come raccontarlo? Come separare i nomi delle vittime da quelli dei carnefici e farne simboli efficaci, farne storie, renderli fruibili, commestibili, assimilabili? E dove tracciare la linea tra presente e passato, tra storia personale e collettiva, per non finire schiacciati dall’ossessione? È quanto si chiede il narratore, diretto a Roma per «un’ipotesi di consulenza a un progetto di documentari sul terrorismo di matrice jihadista». Il suo viaggio attraversa i luoghi dell’anima e della storia, il lessico pubblico e familiare, le immagini finte ma veritiere dei film sulla lotta armata e quelle troppo vere dei video delle esecuzioni diffusi dal web. Un cammino in cui ogni fatto porta con sé l’eco di un altro fatto, ogni incontro la memoria di un altro incontro, ogni volto la traccia di un altro volto: sull’Intercity da Sanremo a Roma, il narratore segue il corso dei pensieri fino all’Italicus, alla strage di Bologna, ai militari che oggi presidiano le stazioni; girovagando di notte per Roma si ritrova in via Caetani, che come una madeleine lo riporta all’amico Stefano, ai discorsi sui retroscena brigatisti mentre giocavano con il Commodore 64, alle chiacchierate sulle più belle donne degli anni di piombo, Adriana Faranda e Nadia Cassini; una visita in ospedale alla cugina lo conduce a Nizza, all’attentato della Promenade des Anglais, a quella volta che suo padre rischiò grosso trasportando oltreconfine «l’amico di un amico».
L’estratto dal libro di Alessandro Gazoia Giusto Terrore.
Storie dal nostro tempo conteso (Il Saggiatore, 2018)
Il giorno dopo alle undici e mezza atterro a Nizza. Matteo ha pagato il viaggio, il nostro accordo economico riservato sta funzionando. Il primo treno comodo per Sanremo, senza un cambio in-felice a Ventimiglia, passa nel pomeriggio dalla stazione in centro, così faccio volentieri un giro in città. L’aeroporto è l’estremo limite ovest della lunghissima Promenade des Anglais, ne percorro quattro chilometri e mezzo in bus, poi risalgo a piedi boulevard Gambetta sino ai giardini Alsace-Lorraine, che portano il nome di un suolo patrio ferocemente difeso. Ci ero già venuto ma non avevo prestato attenzione al monumento dedicato «ai martiri dell’Algeria francese». Un libro di storia consultato di recente mi dice di guardare non solo la parte frontale del piedistallo che celebra i Français d’Afrique du Nord et des terres lointaines qui firent la France d’Outre-Mer ma anche quella posteriore. Lì si omaggia con un’iscrizione Roger Degueldre, tenente dei parà, disertore e poi membro dell’Organisation Armée Secrète, condannato a morte da una corte militare e fucilato in Francia il 6 luglio 1962, il giorno successivo alla proclamazione dell’indipendenza dell’Algeria.
L’OAS fu una struttura paramilitare e anche la prima formazione terroristica moderna di estrema destra; quando divenne chiaro che l’Algeria non sarebbe stata più francese, prese ad ammazzare migliaia di algerini e pure numerosi francesi favorevoli al nuovo stato; tentò persino di assassinare De Gaulle, traditore favorevole all’indipendenza. A Nizza l’alleanza antigollista e revanchista tra il sindaco Jean Médecin e i pieds noirs, i francesi d’Algeria ormai rimpatriati, si spingeva sino a mostrare apprezzamento per i militanti di quell’organizzazione, tanto che il nome di Degueldre poteva essere inciso nella pietra e onorato come symbole de l’Algérie française.
Scatto una foto col cellulare, ridiscendo un poco boulevard Gambetta, poi proseguo dritto sino alla libreria Sorbonne, dove mi fermo a prendere fresco e tento di capire cosa merita l’acquisto nel diluvio di saggistica su terrorismo, islamismo, «suicidio francese» e reazione identitaria. Esco dopo una mezz’ora e vedo che ho ancora tempo per il treno, così decido di portare un saluto veloce alla statua dell’eroe. Lo sventurato Garibaldi, spiegava mio padre, unisce l’Italia e per ricompensa ottiene solo la cessione allo straniero della sua terra natale, il ritornello scemo fu ferito a una gamba e un disgraziato monumento in Costa Azzurra. Il generale è obbligato al gesto volitivo e svetta solitario al secondo piano, sovrastando due donne allegoriche, la Francia e l’Italia, che vegliano su di lui infante al piano inferiore. L’eroe sovrasta pure due leoni ai lati che non significano nulla ma sono forzati a simboleggiare due tra i suoi figli per carità interpretativa e architettonica (il progetto iniziale non li prevedeva, furono aggiunti dopo che per ragioni tecniche si dovette allargare la base). L’opera viene costruita sulla via che sotto i Savoia si chiama Strada Reale e porta sino a Torino attraverso il Col di Tenda: lo sguardo di Garibaldi è rivolto all’antica capitale o almeno così era sino a una decina di anni fa, prima che spostassero il monumento di una ventina di metri per far spazio ai nuovi binari del tram.
Mio padre non lo vide mai nella nuova collocazione. Mi portò lui in place Garibaldi la prima volta, alla fine degli anni ottanta, quando era ancora attiva la linea di bus Sanremo-Nizza. Gli piaceva molto venire in servizio in Francia, tornava a casa contento con le borse della spesa piene di prodotti che qui non si trovavano (soprattutto succhi di pomodoro concentrato, madeleine e formaggi, che detestavo per l’odore forte). Solo nel pieno dell’estate diventava insofferente, al volante gli saliva il nervoso per le code interminabili, l’asfalto arroventato e la mancanza di aria condizionata ma soprattutto per i marocchini che lo bloccavano mezzora a ponte San Luigi. Il razzismo non c’entrava, era fastidio per la poca intelligenza: come potevano credere di passare la frontiera semplicemente salendo su una corriera italiana a Ventimiglia, quando al confine i controlli erano tutti per loro e rigorosissimi?Trasparivano di continuo nei discorsi di mio papà il rispetto timoroso e la riluttante ammirazione per la République salda, severa e sicura, per la Francia che non scherza mica coi clandestini e ai cugini italiani mette il tacco bloccaruote – pure se lasci la macchina solo dieci minuti in divieto di sosta, così non puoi stracciare la multa e fregartene, come fanno loro quando vengono al mercato a Sanremo a comprare il pastis a prezzo più basso e piazzano l’auto in terza fila.
Ma all’inizio degli anni zero i vols à la portière gli offuscavano quest’immagine di fiera e ordinata potenza. I furti alle auto erano diventati troppo frequenti e terrorizzavanogli italiani in gita a Nizza. Ormai la linea diretta del bus non c’era più e in Francia mio padre andava raramente, ma proprio un suo carissimo amico era stato rapinato con una pistola puntata in faccia al semaforo sotto Nizza Est, o almeno così diceva. Papà mi obbligava a promettere che avrei fatto sempre attenzione e per nessun motivo sarei sceso dalla macchina (la sua macchina), neanche se sembrava esserci appena stato un incidente con feriti. Perché i magrebbini dell’Arianna – intendeva l’Ariane, la zona dei palazzoni sopra l’autostrada – inscenavano il tamponamento e il dramma. Poi ti fregavano tutto e ti picchiavano pure. Io tentavo di preoccuparmi, leggevo i numerosi articoli di cronaca locale con l’intervista al sanremese derubato e l’allarme sicurezza ma non riuscivo a temere davvero quel luogo. E quando arrivavo a Nizza Est non incontravo mai nessun malintenzionato dalla pelle scura.
C
osì il semaforo mi ricorda solo quattro amiche che in attesa del verde scendono dalla Twingo e si mettono a ballare in mezzo alla strada, con le Destiny’s Child a volume altissimo e le gonne cortissime, per farci morire a noi maschi nell’auto dietro e inaugurare da gran fighe la serata d’agosto in Costa Azzurra.
Papà mi obbligava a promettere che avrei fatto sempre attenzione e per nessun motivo sarei sceso dalla macchina (la sua macchina), neanche se sembrava esserci appena stato un incidente con feriti. Perché i magrebbini dell’Arianna – intendeva l’Ariane, la zona dei palazzoni sopra l’autostrada – inscenavano il tamponamento e il dramma. Poi ti fregavano tutto e ti picchiavano pure
Alle dieci e mezza del 14 luglio, nella sera della festa nazionale e dei fuochi d’artificio, un camion lanciato a gran velocità uccide ottantasei persone sulla Promenade des Anglais affollata di nizzardi e turisti. Il guidatore, un cittadino tunisino domiciliato a Nizza, viene ammazzato dagli agenti quando ormai è giunto alla fine della passeggiata e del massacro. Due giorni dopo Amaq, l’agenzia stampa collegata all’ISIS, rivendica su Telegram l’attentato definendo l’uomo un soldato dello Stato Islamico, formula di solito usata per gli attacchi ispirati e non diretti dall’organizzazione.
La mattina dopo la strage Angelino Alfano convoca una conferenza stampa, la minaccia preme sui confini nazionali e il paese va rinfrancato. Guardo in diretta su Rainews il nostro ministro dell’Interno, dice giudiziosamente autoproclamato Califfato, sedicente Stato Islamico e per mostrarsi informato alla perfezione cita il discorso del settembre 2014 di al-Adnani, con l’auto in corsa inserita nell’elenco delle armi del terrore («sgozzalo, investilo con la macchina, o buttalo giù da un luogo elevato, soffocalo, avvelenalo»). Alfano legge il brano della propaganda nemica come se s’andasse a stabilire un indubitabile rapporto di causa-effetto tra quello specifico messaggio e l’attacco sulla Promenade e soprattutto come se la connessione veicolo-strage fosse una geniale innovazione del comunicato. Al contrario al-Adnani la indicava proprio perché scagliarsi con un mezzo pesante in accelerazione sui crociati è tra le cose più semplici e di provata efficacia. Il ministro della Propaganda dello Stato Islamico riprendeva un luogo comune jihadista, copiava da molte fonti, anche dai concorrenti di al-Qaida nella Penisola Arabica: già nel 2010 la loro rivista Inspire dedicava un lungo servizio illustrato al jihad urbano con pick-up. «L’idea è quella di utilizzare un camioncino come una falciatrice, ma non per non tagliare l’erba, bensì per falciare i nemici di Allah» scrivevano con la loro idea di umorismo nero.
Il suicidio terrorista islamista invade il nostro immaginario proprio grazie a un’autobomba e a un sorriso. Irrompe nella guerra del Libano, a Beirut, in un giorno festivo, il 23 ottobre 1983, con gli Hezbollah sciiti istruiti dai Pasdaran iraniani e un grande camion giallo che, come racconta Belpoliti nell’Età dell’estremismo, «si avvicina al quartier generale dei Marines statunitensi nella zona meridionale della città. Sono le 6.20 e mancano pochi secondi alla sveglia dei militari. Il sergente Eddie Di Franco, in servizio di guardia, fa appena in tempo a scorgere l’autista mentre si dirige verso l’edificio principale dove esploderà uccidendo 241 uomini dell’esercito americano. Nella sua memoria resta stampata un’immagine. Non ricorda se il guidatore fosse magro o grasso, di carnagione chiara o scura, ma, come ripeterà successivamente, si ricorda benissimo che guarda-va verso di lui e sorrideva». Vent’anni dopo, nell’Iraq occupato, l’insurgency – da altri chiamata: la resistenza – continuava a utilizzare lastessa tecnica suicida dell’autocarro imbottito di esplosivo e lanciato contro i nemici. Anche a Nassiriya, contro la base italiana.
Mohamed Lahouaiej-Bouhlel forse sorride mentre falcia i nemici sulla Promenade des Anglais, forse, come dichiarano alcuni testimoni, grida Allahu Akbar, forse resta serio e muto, concentrato sulla guida omicida. Il suo camion non è un’autobomba, quell’uomo non saprebbe né procurarsi il materiale né preparare un tale mezzo. Ha con sé armi finte e una sola pistola vera, e questa gli basta per sparare sui pochi che invano tentano di fermarlo. Lahouaiej-Bouhlel accelera e all’altezza di boulevard Gambetta sfonda il posto di blocco della polizia, poi a novanta all’ora sulla Promenade ammazza ottantasei persone – un terzo di queste erano d’origine musulmana – e ne ferisce quattrocentocinquanta, senza alcun bisogno d’esplosivo. Durante la sua corsa di quasi due chilometri tenta di restare il più possibile sul larghissimo marciapiede dal lato del mare, per aumentare al massimo il numero dei morti. Come mostrano le immagini delle telecamere piazzate sulla passeggiata, nei giorni immediatamente precedenti passava diverse volte sulla Promenade, saliva e scendeva dal marciapiede, faceva scrupoloso le manovre di prova.
Alle dieci e mezza del 14 luglio, nella sera della festa nazionale e dei fuochi d’artificio, un camion lanciato a gran velocità uccide ottantasei persone sulla Promenade des Anglais affollata di nizzardi e turisti. Il guidatore, un cittadino tunisino domiciliato a Nizza, viene ammazzato dagli agenti quando ormai è giunto alla fine della passeggiata e del massacro. Due giorni dopo Amaq, l’agenzia stampa collegata all’ISIS, rivendica su Telegram l’attentato definendo l’uomo un soldato dello Stato Islamico, formula di solito usata per gli attacchi ispirati e non diretti dall’organizzazione
Nella Battaglia di Algeri, quando l’organizzazione del FLN è sul punto di essere smantellata dai parà di Mathieu e i guerriglieri rinserrati nella Casbah preferiscono la morte alla cattura (ad eccezione dell’accorto Djafar che rinuncia al martirio), viene mostrato un ultimo at-tentato nella città europea. In una serata apparentemente tranquilla una grossa ambulanza sopraggiunge a folle andatura e senza fermar-si scarica in mezzo alla strada un dottore con un coltello conficcato nel petto. Poi il passeggero si sporge dal finestrino e mitraglia con metodo la gente sui marciapiedi, sin quando finisce le munizioni e non può fare altre vittime. Il guidatore intanto si addentra nel campo del nemico. I due sanno di non avere alcuna speranza di fuga. Non sorridono come il fedayn di Beirut e non scelgono neppure la morte con tragica serenità, come Ali e i compagni nel nascondiglio. In loro c’è solo il furore della lotta, e la rabbia per non poter combattere ancora. Ma il tiratore vede un gruppo di persone sotto una grande pensilina di cemento, urla investili al compagno, gli gira il volante, e i due si gettano contro la struttura per uccidere con il proprio sacrificio il maggior numero di francesi.
NOTE sull’autore
Laureato in Filosofia della Scienza, Letteratura Italiana e in Informatica, Alessandro Gazoia scrive di giornalismo, media, informatica soprattutto su proprio blog Jumpinshark. Nel 2013 ha pubblicato per minimum fax l’ebook Il web e l’arte della manutenzione della notizia. Nel 2014 esce il saggio Come finisce il libro, edito sempre da minimum fax.
vivicentro.it/TERZA PAGINA/– ibs/linkiesta
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