Il filosofo Avishai Margalit spiega in un saggio perché l’ideale della fedeltà assoluta rischia di portarci su una strada sbagliata.
Dall’amore alla politica. Vivere è (anche) tradire (Michela Marzano)
C
hi parla del tradimento, ancora oggi, di solito si riferisce all’adulterio. Ma tradisce di più chi ha una relazione sessuale, magari fugace, con un’altra persona, invece che restare fedele al marito, alla compagna, alla sposa o al fidanzato, oppure colui o colei che, durante ad esempio la lunga malattia del proprio partner, comincia a essere meno presente, distante, indifferente? E, spostandosi in ambito politico, chi tradisce veramente il proprio paese o la propria comunità?
Sono queste alcune delle domande che pone Avishai Margalit, uno dei più grandi filosofi contemporanei, nel suo ultimo saggio Sul tradimento (Einaudi). Nonostante a prima vista possa apparire un tema più che abusato, il tradimento rappresenta infatti, per Margalit, il prisma attraverso il quale leggere ogni tipo di “relazione forte” (thick, letteralmente Spesso l’indifferenza ci fa sentire feriti “spessa”). Anche semplicemente perché è solo quando viviamo un rapporto forte, ossia uno di quei rapporti cui teniamo più, che possiamo essere traditi: coloro che ci tradiscono possono farlo sempre e solo perché ci fidiamo di loro, ci abbandoniamo al loro benvolere, pensiamo di essere “speciali” per loro.
Tanto più che, se è vero che il tradimento è tale perché porta con sé offesa e danno della vittima, è anche vero che l’offesa più grande è legata alle aspettative che si hanno nei confronti di chi, fino ad allora, ci ha fatto credere di essere unici: «Vogliamo essere speciali, suscitare affetto e stima, se non ammirazione, pur non avendo nulla che ci distingue dagli altri. Sono i nostri rapporti speciali a renderci significativamente speciali. Nell’ambiente circoscritto del nostro rapporto forte noi siamo speciali. Ecco, il tradimento ci comunica in modo brutale che non lo siamo».
Dopo aver affrontato il tema della decenza e dell’umiliazione, e dopo aver consacrato i suoi due ultimi libri all’idolatria e ai compromessi “sporchi”, il filosofo israeliano continua a interrogarsi su ciò che rende possibile il vivere insieme e permette quindi di garantire la persistenza delle nostre relazioni più importanti: l’amore, l’amicizia, il senso di appartenenza a una comunità religiosa, l’attaccamento alla Patria. Il vero problema del tradimento, d’altronde, non è tanto l’intenzione di ferire di chi tradisce, quanto l’indifferenza del traditore nei confronti della vittima, della storia condivisa, dei valori per i quali ci è battuti insieme e in cui, insieme, si è fortemente creduto.
Un’indifferenza che rivela brutalmente alla vittima di poter essere rimpiazzata: sostituita da un amante, sostituita da un nemico di Stato, sostituita da un altro dio.
Con il tradimento, la persone tradita deduce di non essere importante agli occhi del traditore, nonostante la certezza di esserlo stata per tanto tempo, nonostante il “senso di appartenenza” che caratterizza, appunto, ogni rapporto forte. Poco importa, allora, che si parli di tradimento politico — nel senso di violazione della fedeltà verso la propria comunità politica — di collaborazionismo — quando cioè ci si associa col proprio nemico — o di tradimento all’interno di una coppia. Quando si tradisce, indipendentemente dal tipo di tradimento, si cancellano la storia e la memoria condivise, ci si mostra indifferenti all’altro, si rimette in discussione l’appartenenza comune.
Ecco perché, per Avishai Margalit, il tradimento va di pari passo con la mancanza di trasparenza nelle relazioni umane: «Se ti nascondo delle informazioni vitali, amico mio, significa che manca la trasparenza nella nostra relazione; se invece concepisco un rapporto umano come possesso feticistico di oggetti significa che manca la trasparenza del rapporto ». Il che non significa, però, che si debba poi cercare di imporre “tutta la verità” sempre e comunque; la vita civile, spiega bene Margalit, ha talvolta bisogno anche di segretezza.
Ogni relazione umana, riconosce il filosofo, è caratterizzata dall’ambivalenza e dall’impossibilità di una fedeltà integerrima — ormai lo sappiamo da tempo, la psicanalisi ce lo ha insegnato, e sarebbe illusorio immaginare l’esistenza di rapporti che escludano per definizione la possibilità stessa del tradimento. Sperare di poter vivere e amare senza mai venire traditi o feriti, credere che ogni parola data sia un impegno che lega per l’eternità significherebbe d’altronde non capire che anche le relazioni più forti sono fragili.
Anche semplicemente perché nessun rapporto profondo è al riparo dalle variazioni del Nessun legame umano è incondizionato tempo e del desiderio. Ma un conto, argomenta Avishai Margalit, è sapere che nessun rapporto umano è incondizionato; altro conto è rinunciare per sempre alla possibilità di essere importanti e unici all’interno di un rapporto forte — rinuncia che avrebbe tra l’altro come conseguenza evidente l’impossibilità di pensare la “fraternità” accanto alla “libertà” e all’“uguaglianza”.
Certo, il tradimento spiazza, destabilizza, ferisce. Non riconoscerlo significherebbe ancora una volta “umiliare” chi ci è accanto. Ma se questa sofferenza è il prezzo da pagare affinché si possano ancora concepire delle relazioni forti, conclude Margalit, allora forse è un prezzo che vale ancora la pena di pagare.
larepubblica/Michela Marzano
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