L
e proteste dopo la morte di una giovane ivoriana in una struttura di accoglienza migranti a Cona, in Veneto, hanno riacceso il nodo della distribuzione dei profughi. Davide Lessi, inviato del La Stampa, racconta la rabbia condivisa tra i migranti e gli abitanti del posto. I sindaci attaccano il governo: non servono nuovi centri, ma più espulsioni. In un’intervista il neo ministro degli Esteri Angelino Alfano:“Dobbiamo accelerare su espulsioni e rimpatri: sono al lavoro per concludere accordi che diminuiscano gli arrivi impedendo le partenze”.
“Nell’ex base per i missili senz’acqua calda e in camerate al freddo”
I profughi a Cona: «Sei mesi per avere un documento»
Lui, con un altro centinaio di migranti, domenica notte, ha detto basta. E’ insorto: ha occupato il centro di accoglienza, acceso dei falò e sequestrato per qualche ora 25 operatori della cooperativa che gestisce il campo.
Una rabbia coltivata da mesi che, per tutta la giornata di ieri, non è scemata. Per capirla bisogna venire qui, nella frazione di Conetta, 200 anime, tanti campi e un’ex base missilistica chiusa da 10 anni, dismessa da 4 e da circa 15 mesi diventata un centro di accoglienza. Un hub, per dirla all’inglese. Uno di quei non luoghi che viene utilizzato per ospitare migranti. Quanti? Nessuno sa dirlo. Ufficialmente 1366 (tanti sono i pasti serviti), 25 le donne. Ma secondo fonti non ufficiali arriverebbero fino a 1800-2000.
«Un delitto»
«Comunque troppi», dice il sindaco, Alberto Panfilio, che denuncia: «Non si può parcheggiare così tante anime in questo posto». Ha passato quasi tutta la notte davanti ai cancelli della base, la febbre a 38 e poca voglia di usare mezzi termini: «Non importa che quella giovane ivoriana sia morta in modo naturale. Qui, in ogni caso, è stato commesso un delitto. L’assassino? E’ la politica che, nella sua totale assenza, ha creato le condizioni perché accadesse tutto questo». Poi rivela: «Quella donna aveva anche subito un aborto un mese fa». Sandrine era sopravvissuta al barcone su cui, con il compagno, aveva attraversato il Mediterraneo partendo dalla Libia, non al malore che l’ha colta nei bagni di questo centro d’accoglienza.
Il viavai fuori dall’ingresso della base non si ferma. Decine di agenti schierati in tenuta anti-sommossa proteggono l’ingresso. Cercano di fare entrare i furgoni del servizio mensa, ma per qualche ora non ci riescono. La protesta dei migranti continua. Dentro non si entra. Non solo gli operatori della cooperativa, anche i giornalisti restano fuori.
Filo spinato
Una cinta di filo spinato protegge l’insieme di ex edifici militari e nuove tensostrutture allestite per i richiedenti asilo. E loro escono, ci mettono la faccia per spiegare i motivi della protesta: «Il primo problema sono i documenti: c’è gente che è qui dentro da sei mesi in attesa di una risposta per la richiesta d’asilo», denuncia David, 36 anni e tre figli lasciati in Ghana prima di affrontare il deserto e il mare con un gommone da mille dinari a testa. E continua: «Poi le condizioni igieniche e l’assistenza non funzionano: per avere acqua calda mi alzo alle tre di notte ormai da due mesi. Anche le stanze non sono sempre riscaldate». Ma avete a disposizione soldi? «75 euro al mese», spiega ancora David. Due euro e pochi centesimi al giorno che servono a ricaricare i telefoni, chiamare casa e dire che, forse, andrà tutto bene. E proprio da quegli smartphone David e un capannello di suoi connazionali mostrano le foto e i video delle camerate dove vivono ammassati in letti a castello, dei bagni intasati, della sporcizia che invade ogni angolo. Fonti della prefettura assicurano che tutto ciò sia dovuto alla protesta delle ultime 24 ore che ha fatto saltare il servizio di pulizia. Ma i dubbi rimangono e, con loro, la rabbia.
La cooperativa nel mirino
Una rabbia condivisa. Tra i migranti e fra gli abitanti che si aggirano circospetti nelle viuzze di questa frazione, di campi lasciati a maggese e un solo bar chiuso per le vacanze natalizie. «Ho paura: dal mio balcone ho visto le proteste, i falò, gli scontri», dice Enzo Zanirato, 62 anni, tra un mese pensionato. «Questa cosa ci ha cambiato la vita», dice un ex agente della polizia provinciale che preferisce mantenere l’anonimato. «Una volta facevo l’intero giro della base a piedi, ora non me la sento di superare la strada provinciale». Uno striscione esprime questo malessere: «Rimpatriare gli immigrati. Stop al business dell’accoglienza». E nel mirino finisce Ecofficina, la cooperativa padovana di Battaglia Terme, che gestisce il campo di Conetta e altri centri di migranti, da Rovigo a Treviso. Era nata per operare negli asili e nelle biblioteche ma ora la sua attività principale è diventata quella dell’accoglienza. Tanto da arrivare a fatturare oltre 10 milioni di euro in un anno. Un’ascesa che è finita anche nel mirino degli inquirenti: due le inchieste aperte sui vertici della cooperativa (una per falso relativa all’aggiudicazione di un bando Sprar, il Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Nonché una «scomunica» da parte della Confcooperative che ha sospeso Ecofficina lo scorso settembre («E’ una coop che guarda troppo al business e non risponde alle logiche della buona accoglienza»).
Il contagio
La rabbia dilaga in tutto il Veneto. Il sistema dell’accoglienza sembra non tenere più: solo nel Trevigiano mancano 1.196 posti letto secondo i numeri forniti dalla prefettura. Altri beni del demanio verranno usati per gestire gli arrivi. Come l’ex polveriera vicino a Volpago dove gli abitanti hanno organizzato una manifestazione tre giorni dopo Natale: «Benvenuti nel Montello, sarà il vostro inferno», si leggeva in uno degli striscioni. L’altra faccia della stessa rabbia.
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