A Roma è battaglia sul voto anticipato. Come spiega Marcello Sorgi, «sul palcoscenico della politica si è venuta a creare una strana alleanza per il voto subito che mette nuova pressione sulle decisioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella».
La strana alleanza per le urne
I
l primo è il partito Renzi-Grillo-Salvini-Meloni, che ha ottenuto di cominciare al più presto, già il 27, la discussione parlamentare sulle modifiche da apportare alle leggi elettorali uscite dalle due sentenze della Corte costituzionale che hanno cassato il Porcellum e l’Italicum, per concluderla in tempi brevissimi, e in caso di accordo anche a colpi di fiducia, e andare alle urne a giugno. L’ipotesi su cui questa strana alleanza tra l’ex premier battuto nel referendum e tre dei maggiori responsabili della sua sconfitta potrebbe stringere un patto temporaneo sarebbe di esportare anche al Senato l’ex Italicum, che la Consulta ha trasformato in legge a un solo turno, con il premio di maggioranza molto eventuale riservato alla lista che riesce a superare il 40%.
E con i cento capilista bloccati ma privati del potere (sostituito con il sorteggio) di scegliere il collegio dove essere eletti, per determinare con la propria rinuncia l’ascesa dei numeri due. Reggerà o no l’intesa? Nel Parlamento esausto, sopravvissuto a una legislatura fallimentare, che ha visto un’intera stagione riformatrice cancellata dai risultati referendari, qualsiasi previsione è azzardata: limitiamoci a dire che per il momento il partito del voto a giugno può contare su due terzi dei deputati e senatori, ma è consapevole della fragilità degli accordi tra avversari che restano tali e di qui a poco si contenderanno la guida del Paese con opposti argomenti e senza esclusione di colpi.
Il secondo partito, che punta alla conclusione naturale della legislatura nel febbraio 2018, ha trovato ieri a sorpresa un autorevole portavoce nell’ex capo dello Stato Napolitano: il quale, alleato fino a ieri con Renzi nella partita delle riforme, adesso è diventato, non suo nemico, ma avversario del modo in cui il leader del Pd sta cercando di andare al voto a rotta di collo. Accanto al Presidente emerito della Repubblica sono schierati i due presidenti delle Camere Grasso e Boldrini, il leader della minoranza Pd Bersani – che in un’intervista all’Huffington Post ha rotto gli indugi, minacciando anche lui di uscire dal Pd per formare «un nuovo Ulivo» e chiedendo che il governo sia lasciato governare e la legislatura durare fino a scadenza -, Sinistra italiana, il ministro degli Esteri Alfano, il leader centrista Casini, e un Berlusconi voglioso, sì, di allungare i tempi, ma renitente a stare in questa compagnia. Inoltre, dietro la facciata ufficiale del partito del 2018, si muovono quelli che di tanto in tanto ci si ostina ancora a definire «poteri forti»: una parte del Vaticano, le ambasciate di importanti partners europei, Bankitalia e i vertici dei principali istituti di credito italiani inquieti per la risalita dello spread, gli osservatori delle banche d’affari straniere, la Confindustria. I dubbi di questo largo fronte sono emersi la sera del 4 dicembre, di fronte alla clamorosa vittoria del «No» e al rischio, per l’Italia, di andare indietro tutta rispetto al percorso virtuoso delle riforme degli ultimi anni. Un timore che la piega che stanno prendendo le cose non contribuirà certo a fugare.
È difficile dire a questo punto cosa farà Mattarella. Stretto tra questi due partiti trasversali, il Presidente ascolterà tutti e alla fine deciderà in solitudine: com’è suo dovere in una circostanza così delicata.
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